Libri rari da leggere, rileggere, da conservare: Angelo Maria Ripellino

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Da “Scontraffatte chimere” di Angelo Maria Ripellino, 1987

PREFAZIONE 
di Giacinto Spagnoletti


Angelo Maria Ripellino, una delle figure insostituibili del panorama letterario del secondo cinquantennio del secolo, si spense a Roma il 21 aprile 1978, a soli cinquantaquattro anni. Qualche mese prima di morire aveva pubblicato da Guanda l’ultimo suo libro di poesie, Autunnale barocco, qualche giorno dopo la fine Einaudi fece recapitare ad Ela, la scrittrice e traduttrice ceca che era stata la sposa e la compagna della sua vita, l’ultimo straordinario volume di critica:Saggi in forma di ballate, recante come sottotitolo «Divagazioni su temi di letteratura russa, ceca e polacca». In due brevi paginette anonime il lettore veniva informato che l’autore in questo volume aveva raccolto i saggi «che in anni recenti erano stati al centro della sua attività critica». E ne allineava i nomi: da Cechov a Rozanov, da Chlébnikov a Pasternak, da Schulz ai cechi Halas e Kolàf. «Sullo sfondo, onnipresente punto di riferimento, la grande figura di Majakovskij e le ardite sperimentazioni dei cubo-futuristi». [per leggerla tutta clicca QUI]


Stop

Non attenderti più, non chiamarti,
consumarsi come una lanterna,
non cercarti, non telefonarti,
nascondere il viso tra le umide mani
piangere in segreto come l’alba,
e tornare da solo in quella strada,
dove cinguettavano i tuoi baci.

Spegnere questo fuoco divorante,
strozzare le idre del desiderio,
non attenderti più, non chiamarti,
scivolare nel tempo e nell’ombra.

Perderti come un mito, e fra vent’anni
ritrovarti, ormai gonfia di buon senso,
con bracciate di figli e di faccende,
e ricordare con te le fugaci
carezze, il sortilegio del distacco.

Biascicando, esprimerti il rimpianto
di ciò che è perduto, che mi lasciai sfuggire:
della tua giovinezza stellare,
del tuo piccolo corpo di uccello ferito.

E sarà scialbo il ricordo, grigiastro, sfiorito,
e nulla potrà risvegliare quei giorni.



**

Non era questo il mio poeta

Tanti piccoli tremolanti
Majakovskij
come formiche dilatate
ingombrano il mio campo visivo
turbandomi la vista.

Un brulichìo di cose spurie,
di fili e arabeschi di sangue -
di frange deformanti -

Non era questo il mio poeta:
più piccole cose io vorrei,
fontanelle, ciuffette, piccole piume,
e niente urli -

**

Molti leggono ancora «Mein Kampf»
e sognano di far bollire
il prossimo su una graticola,
molti curano l’anemia del mondo
coi paroloni bavosi come lumache,
manovrando i reostati di mostruosi magneti,
con lingua di formichiere essi leccano
il pube della violenza.
Dal coito dell’onore e della forza
nasce, pidocchiosa, la tortura.
Quante verdi cose scricchiano, piangendo
nelle rozze mani di costoro.
Come lampade, gli eroi si schiantano
sotto i loro tacchi di ghisa.
Con le pinze attaccate al lobo d’un orecchio
saltano come ranocchie
in un fiume disseccato,
hanno la gola secca
ma non parleranno, perché non è morta
la forza, la dignità degli uomini

**

Il mio corpo era un groviglio di piaghe,
di buchi, di ulcere, di croste necrotiche,
un insieme di scorie, filacce,
pomate distese su crepacci,
il mio corpo era tutto scavato
da solchi e scoscendimenti,
quando il barone Cyclette,
piegandosi sulle gambe,
mi ordinò moto, sforzi, fatica,
flessioni, piroette, come nei Campi Elisi.
Costui aveva pietre luccicanti invece di occhi
e le sue mani brillavano di mie monete.

**

Fuga

Fermo dinanzi alla chiesa,
nel dolce sole domenicale
un albero di palloncini copre
due mani grandi come le mani di Lazzaro:
per ordine di angeli-finanzieri
il bimbo ne avrà in dono
uno rosso e baffuto,
simile a Pietro il Grande.
Nella pausa che corre tra l’adagio e l’allegro,
fugge il mito di gomma,
stridendo come corda di violino
(ahimè, che buffa è l’orchestra)
e addio, come a una lettera impostata.
Ma quali mani ti riceveranno
dietro le quinte dell’aria?

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