Memorie (quasi) vere: Marta Marzotto

Memorie (quasi) vere: Marta Marzotto
con Marta e Adele Cambria, nello stand per
i 10 anni della Confesercenti
Parlare di Marta Marzotto sarebbe molto semplice, se non fosse che ciò che di lei più si conosce, riguarda l’effimero, o quello che molti di noi, me compreso, considerano tale. Ed io non sono un esperto del campo. Quindi il caso ci fece incontrare e fu, come sempre, il libro: lei ne aveva scritto uno o, almeno, era stata aiutata a scriverne uno. Ne seguì poi un altro con il sostegno e l’aiuto della grande e sempre amica Adele Cambria. Nessuno avrebbe creduto, né forse ancora oggi ci crederebbe che almeno sei dei libri da me editi, hanno avuto il suo sostegno. La incontrai alla redazione della rivista Minerva e, dopo essermi presentato tre volte, mi ascoltò, nel senso vero: aprì bene le orecchie perché le parlavo di libri e soprattutto perché con me collaborava Dario Bellezza. Ne era innamorata umanamente ed esaudii subito la richiesta, malgrado Dario recalcitrasse per la "cosa", lo costrinsi ad andare a casa sua a farle visita. Entrammo, dopo un lungo corridoio, ricco di ‘cose’ facili da rubare (fu la nostra immediata riflessione) fummo regalmente accolti nella sua casa di Piazza del Popolo. Non è il caso di descriverla qui, penso lo abbiano fatto altri. Ciò che mi preme è dire alcune fondamentali cose: non avevo più soldi per stampare libri e da lei li trovai, quindi stampai di Anna Maria Ortese, Estivi terrori e le proposi quello di Goliarda Sapienza Le certezze del dubbio e il mio Fatto d’amore, fra politico e privato, con riflusso senza stato (bel titolo, no?). Non si limitò a questo ma anche alla presentazione del libro di Goliarda a Roma al Bagaglino (che affittò o gli prestarono) e venne in Sicilia, prima a Catania a presentare il mio e poi insieme a Goliarda anche a Castiglione di Sicilia, invitata dal sindaco Enzo Grasso.
E ancora, contribuì (anche se a volte non direttamente, perché non gira come i comuni mortali coi soldi in borsa) alla stampa delle poesie del figlio naturale di Renato Guttuso, Antonello Cuzzaniti, il quale aveva scoperto dai giornali questa feroce notizia. Uso feroce lasciandovi immaginare che in autobus uno scopre ad oltre trent’anni una relazione della propria madre (Carolina Piro, allora sposata con Roberto Cuzzaniti, che ebbe una relazione dal ‘49 al ‘54 con Renato Guttuso) con il più noto pittore italiano.
E così via, si prestò a Latina a fare da madrina al Premio Villa delle Querce, promosso anche e soprattutto da me ed infine, facendomi guadagnare qualche milione, venendo alla festa per il ventennale della Confesercenti a Milano, in mezzo alle bancarelle di piazza Duomo, rifiutando il compenso, lasciandocelo spartire fra me e Dario.
Non ha mai voluto essere chiamata contessa, dagli amici solo Martina. La sua semplicità, come il suo cuore, erano e sono ancora (credo) disarmanti. Così come era accaduto a me, ha aiutato molti altri, non solo economicamente, per fare libri come nel mio caso, ma intervenendo (sempre in silenzio) in molti casi ove occorreva davvero un impegno notevole economico, oltreché umano.
Ricordo alcuni interventi su bambini ammalati, in gravi condizioni.
Qualche volta se n’è parlato, a proposito della casa Marzotto e dei contributi in beneficenza e non credo che le faccia piacere che io ne accenno.

Alla malattia di Dario Bellezza cercò di intervenire in tutti i modi, almeno in uno riuscì: fare in modo che Mondadori ripubblicasse qualche suo libro (tramite il consuocero Emilio Fede e Vittorio Sgarbi) e fare in modo che andasse al Costanzo show.
Persone non certo amate dal mio stesso pubblico, però così è stato. Fra politica e danni che la politica stessa ha arrecato al paese, la vicinanza di Marta e alcuni altri amici al gruppo di Berlusconi, ha allontanato molti di noi.
È stata quasi costretta a lasciare la casa di Roma, la presunta conversione alla religione cattolica da parte di Renato Guttuso e agli inghippi (e alle eredità) dietro la sua morte (1987); se ne parlò abbastanza in quegli anni.
Ma a lei, a Martina, non fu consentito più di entrare in casa del pittore: il segretario diventava erede (e forse autore di molte opere di quel tempo dello stesso). Ma di questo non sono in grado di parlare. Mi ci trovai in mezzo, tentando (sempre con la Cambria) di aiutarla e ricordo le mie corse per tutto il centro di Roma in cerca di una fotocopiatrice aperta di domenica, per fare le copie delle lettere in mano di Martina.  Di tutto questo e di tanto altro che si scriveva ne era nauseata. Così lasciò la casa di piazza del Popolo rientrando a Milano e, dopo un periodo di crisi e di silenzio, riprese a viaggiare e a occuparsi, come sempre di moda.
Oggi questa bellissima donna è più che nonna. Mi ha cercato qualche volta, ricordando agli amici comuni le pazzie che per la “Poesia” aveva fatto.

Grazie Martina, molti non ti hanno mai ringraziato, io sì, sempre e lo faccio adesso che mi saluti e mi ricordi sempre tramite Adele Cambria che, per fortuna, malgrado le enormi distanze politiche ti è rimasta amica.

Questo è dell'agosto 2014, oggi Martina non c'è più ma il suo ricordo mi accompagnerà sempre
(Albinea24 febbraio 1931 – Milano29 luglio 2016)

Catania, Guida ai monumenti, Muglia, 1974, ottava parte

Luccjo Cammarata e Beppe Costa: Catania,
Guida ai monumenti, Muglia, 1974


La città che diede i natali al genio del melodramma

Vincenzo Bellini fu il musicista dagli slanci sognanti, dalle ansie cocenti, che seppe rendere i melanconici dolori caratteristici di un romanticismo incerto fra serenità e umano sconforto, giungendo a una purezza di espressione vocale, ad un’immaginazione melodica, ad una limpidezza di espansione sentimentale, che furono tali da farlo ergere al di sopra di ogni altro compositore del suo tempo. Assieme a Rossini, più di Donizetti, egli è il massimo esponente dell’operismo italiano. Lirismo puro, quello delle sue opere, tra cui spiccano «Il Pirata» 1827; «La Sonnambula» 1831; «Norma» 1831; «I Puritani» 1835. Compose, inoltre, «La Straniera», «Capuleti e Montecchi», «Beatrice da Tenda», nonché molta musica di chiesa tra cui quattro messe, la più importante la «Messa Seconda». Questo autentico genio che racchiudeva in sé il temperamento idillico e tragico, sentimentale e focoso, comune a tutti i catanesi, fu stimato e tenuto in altissima considerazione da quanti lo avvicinarono. Godette della ammirazione di Wagner, che non fu certo estraneo alle sue influenze, e lo stesso Donizetti compose una Messa da Requiem in memoria dell’illustre estinto.
Di questo suo grande figlio Catania ha cercato sempre di tenere vivo il ricordo, e riconoscente ne ha esaltato gli alti meriti anche attraverso i monumenti a lui dedicati.
Nel 1923, non senza sforzi, si riuscì a far dichiarare monumento nazionale la casa natale del musicista, che ivi nacque il 3 novembre 1801, trasformata in seguito in Museo Belliniano. Si tratta d’un appartamentino sito all'interno del palazzo Gravina-Cruyllas e a cui si accede dal numero civico 3 di piazza S. Francesco: attraversato il cortile dell’edificio, un cancelletto in ferro porta, attraverso una minuscola scala, all’ingresso. I cinque ambienti che formano i locali' (tre ampie stanze e due piccoli vani) sono divisi in altrettante sale. Nella prima saletta si ammirano una serie di stampe ottocenteschi illustranti i luoghi cari all’infanzia del compositore; vi si trovano, inoltre, tutte le deliberazioni del Comune a favore del musicista: da quella della concessione d’una borsa di studio a quella di tributare solenni onoranze funebri alla su memoria e di erigergli un monumento. Nella sala B si trova l’alcova in cui sarebbe nato Bellini; vi è inoltre posto il pianoforte di famiglia, sul quale pare che il Maestro nel 1832 abbi eseguito «Norma» per farla ascoltare ad alcuni nobili che si trovavano nel suo appartamento milanese e ai familiari.
La sala contiene cimeli e testimonianze del sua vita, nonché una raccolta iconografica del Maestro a partire dal calco originale della maschera funebre riprodotta in cera.
Tra ì ritratti, eseguiti mentre egli era ancora in vita, notevole l’incisione di Natale Schiavone del 1830, quello che ce lo mostra in età giovanile del Maldarelli, l’altro del Platania, nonché il finissimo bustino di J. P. Dantan del 1835 che è l’ultimo ritratto di Bellini prima della morte.
Sempre nella stessa sala, due ritratti (uno a pastello, l’altro a matita) dell’amica del musicista, Giuditta Turina; inoltre, nelle bacheche, si trovano oggetti personali, lettere autografe, l’atto di morte, il referto medico dell’autopsia, la lettera autografa di Rossini annunziante la morte del Maestro.
Nella sala C, si trovano i ricordi iconografici della vita del Cigno catanese, nonché le testimonianze dei suoi rapporti con gli amici e le personalità del tempo. Vi si trova, inoltre, il cembalo appartenuto al nonno del compositore (Vincenzo Tobia Bellini) che servì al genio giovinetto per comporre le prime melodie.
La sala D è dedicata alle composizioni autografe belliniane, a partire da un «Tantum ergo» (composto a 9 anni), alle musiche sacre e profane del tempo dei suoi studi napoletani, sino alla serie delle composizioni teatrali, quali la partitura dello «Anderson e Salviati» (rappresentato nel 1825 nel teatrino del Conservatorio), i fogli autografi della «Bianca e Fernando» nelle due edizioni (una si tenne nel 1826 al S. Carlo di Napoli, l’altra nel 1828 inaugurò il Carlo Felice di Genova); nonché tutta una serie di spartiti che vanno dallo «Zaira» a «Capuleti e Montecchi», opera dedicata ai catanesi.
Particolarmente interessanti le partiture dei «Puritani» che Bellini adattò alla voce di Maria Malibran contenenti dei brani inediti; sono inoltre di notevole interesse un gruppo di fogli contenenti appunti musicali del Maestro e in cui troviamo brani dell’incompiuto «Emani».
Nella sala E troviamo cimeli e ricordi della traslazione della salma da Parigi a Catania avvenuta nel settembre 1876.
Annessi al Museo Belliniano si trovano una biblioteca di cultura musicale e il Centro Studi Belliniani. Nella biblioteca sono conservate composizioni di musicisti catanesi come il Pacini, Geremia, Malerba, Ascanio Bazan, Francesco Frontini, Alfredo Sangiorgi, Pietro Coppola, Pietro Platania ed altri.
Il monumento in onore di Bellini sorge al centro di piazza Stesicoro e venne eseguito da Giulio Monteverde (1880-82); fu inaugurato il 21 settembre del 1882. L’opera è concepita come una colonna a sezione quadrata che si eleva su sette gradini; la statua è posta alla sommità e raffigura il Musicista seduto in poltrona e con in mano alcuni spartiti. Ai lati del parallelepipedo sorgono quattro figure simboliche: «La sacerdotessa Irminsul» (per «Norma»), «Arturo» (per «I Puritani»), «Aminta» (per «La Sonnambula»), «Gualtiero» (per «Il Pirata»): ogni statua poggia sopra i gradini: sull’alzata sono incise le note del «leit motiv» dell'opera. Date le pessime condizioni in cui si trovava, il; Comune ha fatto recentemente restaurare il monumento e, grazie all’opera dello scultore Rosario Frazzetto (1963), possiamo oggi ammirarlo nella sua originaria fattura.
Di ispirazione sansoviana (la facciata ricorda quella della biblioteca di Venezia) il Teatro Massimo Bellini sorge sulla piazza omonima. Realizzato da Andrea Scala, fu portato a termine dal suo collaboratore Carlo Sada che apportò dei cambiamenti al progetto originale. Di discreto effetto monumentale, la facciata è abbondantissima di decorazioni e di bassorilievi simbolici sparsi ovunque, arpe, lire, aquile, busti di musicisti, flauti legati da nastri neoclassicheggianti, tutti opera dello scultore Giulio Moschetti. Bellissima è la sala interna a quattro ordini di palchi più il loggione, di gusto molto raffinato, e culminante nella grande volta decorata da un magnifico affresco di Ernesto Bellandi raffigurante «L’apoteosi di Bellini»; mentre la parte ornamentale è del grande decoratore Stella. Il sipario, raffigurante «La vittoria dei catanesi sui Libici» è opera di Giuseppe Sciuti. Degne di citazione le decorazioni del ridotto, opera del pittore Natale Attanasio.
Di questo teatro (inaugurato la sera del 31 maggio 1890 con l’opera «Norma»}, Beniamino Gigli ebbe a dire nelle sue memorie che ha la più bella sala di teatro al mondo; per parere unanime, la sua acustica è la migliore fra quella dei teatri d’opera europei: a noi stessi è capitato questo fatterello che può dare un’idea della perfezione della resa musicale. Mentre veniva eseguito l’AIlegro di una sinfonia (musica ovviamente fragorosa e altisonante), il suonatore di flauto smontò il suo strumento e cominciò ad esaminarlo, evidentemente avendo riscontrato qualche difetto di suono; orbene, tutto il teatro si accorse del fatto non perché avesse notato la manovra (eseguita con la massima discrezione) bensì perché si sentì benissimo, pur nel fragore prodotto dall’orchestra, il rumore prodotto dalla separazione del boccaglio dello strumento dalla sua tastiera!

Dopo l'Unità d'Italia

Partiti dalla preistoria, eccoci giunti al termine dell'excursus nel tempo attraverso la città che, come abbiamo potuto constatare in questa veloce carrellata, non fu certo priva di gloria e di ingegni.
Diciamo «al termine» perché ci guardiamo intorno non riuscendo a ritrovare il fascino e l'esuberanza creativa che abbiamo colto in quelle opere settecentesche che han merito d’averci stimolato e spronato in questo lavoro compiuto a ritmo sfrenato che in parte giustifica le manchevolezze cui siamo incorsi. Del che ci scusiamo con i lettori. Onestamente sentiamo il bisogno, più che il dovere, di far presente che Catania con l'unificazione o meglio, sotto il governo piemontese, cessa nel ruolo di città viva, cosa del resto avvenuta a molte altre città italiane, perdendo quelle iniziative culturali e politiche che in passato avevano spesso fatto sentire il loro peso, a volte in maniera pressante, tal altre in sordina.
Nell’ormai modesta provincia del Sud, il popolo catanese si adatta alla nuova condizione con l’apatia e il fatalismo tipici delle genti del meridione le quali sempre poco hanno sentito la partecipazione ai governi che per secoli si sono succeduti, considerandoli estranei alla loro vita sociale, non tanto perché invasori, quanto perché i suddetti governi nulla mai fecero per tentare almeno di capire i problemi del popolo del Sud. Non più quindi città di cultura, «Albergo del Sapere», come ebbe a definirla il Tasso nella «Gerusalemme conquistata» (cant. I, St. 70), ma provincialismo gretto, dove nulla più accade. Finiscono i fasti delle corti del vicereame. L’ultimo re che visitò la città, anche se un borbone, fu Ferdinando I nel 1816.
Non è questa la sede, né compito di quest’opera cercare di approfondire i motivi politico-economici che determinarono questo stato di cose, ma dobbiamo constatare che niente di veramente fecondo può nascere quando mancano gli stimoli necessari alla creazione e cioè gli eventi storici favorevoli allo sviluppo di una società. In pratica, ad un esame di questo periodo, guardandoci intorno, troviamo il deserto. Non sono certamente quei pochi e mediocri edifici già citati e sorti alla fine dell’ottocento che possono dare lustro ad un’epoca che dovrebbe invece contenere il seme del rinnovamento com’era da attendersi da una nazione in formazione. E meno ancora lo sono i pochi monumenti sparsi nelle rare piazze, spesso mal realizzate e raffazzonati nelle successive modifiche o nuove sistemazioni che si è creduto dare.
Ma di quali monumenti stiamo poi parlando? Forse di quello equestre ad Umberto I di Savoia o dell'altro a Garibaldi di Ettore Ferrari eseguito nel 1912, a fianco dei Giardini Bellini? Di un certo interesse potrebbe essere la Fontana di piazza Giovanni XXIII, prospiciente la Stazione Centrale ed è certo la più significativa opera eseguita dallo scultore Giulio Moschetti nel 1904: rappresenta Plutone che rapisce Proserpina: il gruppo è circondato alla base da figure femminili terminanti in sirene ed aggrappate alla criniera di cavalli imbizzarriti. Purtroppo l’opera è stata a suo tempo realizzata in cemento, con una vasca a livello del pianto stradale, tanto da non consentire un gioco d’acqua tale da rendere d’effetto il monumento senza allagare la piazza. A ciò si potrebbe certamente ovviare se le autorità preposte prendessero in seria considerazione la possibilità di far fondere in bronzo l’opera e realizzare una nuova vasca che fosse almeno ottanta centimetri più alta rispetto a quella attuale.
Così come si può notare gli albori del novecento colgono Catania in un vero decadentismo artistico e la situazione non muta certo intorno agli anni ’25-35 quando una architettura standardizzata, che è poi quella del regime fascista, tanto per intenderci, semina una serie di edifici di gusto assai dubbio, quale ad esempio il Palazzo della Borsa dell'architetto Platania, che sorge a piazza Stesicoro affiancando la Chiesa di S. Biagio, il Palazzo delle Finanze poi e l’altro degli Invalidi a piazza Teatro Massimo; la scuola G. De Felice a piazza Roma, l’ex palazzo del littorio in via Plebiscito e così discorrendo. Ma il maggiore esempio di questa architettura è costituito dal Palazzo delle Poste, opera del 1928, realizzata dall'architetto Francesco Fichera e che in sé riassume tutte le caratteristiche di quell’estetica a gusto neoclassicheggiante e priva di contenuti stilistici e funzionali di cui molti architetti di quel tempo si fecero portabandiera cercando di visualizzare le teorie estetiche del regime, teso a creare un tratto di unione tra le tradizioni latine dell’Italia ed il popolo avvilito degli Anni Venti.
Così come Hitler si riallacciò all’epopea nazionale germanica del medioevo, ripristinando la leggenda dei Nibelungenlied, il fascismo ricollegandosi a Cesare volle dare una carta di credito al popolo, spazzando millesettecento anni di sacrifici, lutti e oppressioni che, se è vero che lo avevano tiranneggiato, nel compenso lo avevano forgiato e arricchito di quel bagaglio di esperienze culturali di cui il genio italiano aveva saputo trarre quei profitti noti al mondo.
Certo che oggi la città non è, non può e non potrebbe essere più quella del Vaccarini; il progresso e l’avanzata tecnologica hanno modificato il concetto di architettura, dando all’estetica ed alla funzionalità valori diversi e senz’altro più utili per le esigenze dell’uomo. Purtroppo, oggi, questi principi sono insidiati dall’edilizia speculativa, che ha allungato i tentacoli in maniera smisurata e indisciplinata. Sono sorte nuove arterie, si è cercato di ristrutturare vecchie zone che senz'altro avevano bisogno d’esser sistemate ed in brevissimo tempo, nuovi quartieri sono divenuti popolarissimi. Eppure, nulla di tutto questo è stato fatto come si sarebbe dovuto.

Non vogliamo essere accusati di distruttivismo e neppure parliamo per puro spirito critico, ma solo perché crediamo che a Catania esistono le premesse di poter far bene e razionalmente, mentre le carenze e l'autodistruzione che giornalmente ci scorrono sotto gli occhi, sono per noi come un supplizio di San Bartolomeo.
Il risanamento della vecchia zona S. Berillo, che si estendeva al centro della città, con una serie di catapecchie e strette strade spesso di malaffare, una volta raso al suolo, avrebbe dovuto darci un insieme di arterie tagliate razionalmente e costruzioni funzionali e valide sul piano estetico: prima fra tutte, il corso Sicilia che avrebbe dovuto essere un rettilineo, che, partendo da piazza Stesicoro, giungesse alla Stazione Centrale; invece è nata una strada «asfittica», con un tracciato tutto particolare, realizzato a baionetta per favorire, scusate, salvaguardare non si sa bene quali monumenti storici inesistenti. Lo stesso dicasi per piazza Europa, parte terminale del corso Italia, dove, alla sua assurda strutturazione, si aggiunge l'indiscutibile pessimo gusto di una ridicola fontana, posta nei suoi pressi e la statua di una Madonna realizzata da scalpellini a Pietrasanta (ove si fanno lavori in serie), posta alla sommità di una colonna. Il tutto dà l’impressione di un monumentino da oratorio. Siamo certamente lontani dal gusto della S. Agata che schiaccia l’idra della peste, sita a piazza dei Martiri.
Non è certo il caso di procedere oltre. Più che al mal fatto, i nostri timori sono rivolti a quanto di quel poco resta nella città antica e che si mira certamente a distruggere. Si sta infatti procedendo a deturpare una serie di simpatici villini in stile Liberty, che sorgono lungo il viale Regina Margherita ed il viale Mario Rapisardi. In vìa Etnea si sono autorizzate demolizioni come quella del palazzo Spitalieri, anni orsono, per far posto ad edifici di gusto dubbio come la «Rinascente». Non parlando poi del Giardino Bellini, una volta pregio e vanto della città per la sua estensione e bellezza, che a forza di ridurlo e frazionarlo, per motivi urbanistici, nello spazio di mezzo secolo, se declassato al ruolo di modesto giardino pubblico di provincia. Persino gli alberi dei viali, soggetti a potature stagionali, una volta tagliati da personale non specializzato, finiscono per ricrescere in maniera disordinata quando non ricrescono per niente.
Malgrado le critiche avanzate, non siamo certo talmente ingenui da lasciarci sfuggire la realtà, perdendoci in polemiche ed aggiungiamo subito che Catania è senza dubbio la città più commerciale del meridione, con una densità di popolazione elevata, che conta 500.000 abitanti. Possiede inoltre una discreta zona industriale che s’estende su una fascia della piana. La sua posizione le consente lo sbocco con tutti i mercati del Mediterraneo. Una città così non può essere priva di iniziative d’un certo interesse; ne fanno fede la mole delle banche, gli scali aero-navali, le agenzie marittime e di trasporti, nonché una fittissima rete di uffici d’affari privati e pubblici.
Naturalmente tale sviluppo ha favorito pure iniziative positive, che sotto il profilo architettonico si traducono in opere come il Palazzo del1’E.S.E., esempio estetico di vero pregio, che sorge nei pressi di largo Paisiello; in complessi turistico-alberghieri come l’Hotel Excelsior di piazza G. Verga e l’altro più recente, Baia Verde, nato come per incanto sulla scogliera di Cannizzaro, in posizione stupenda, in stile mediterraneo con le sue facciate bianche, e che si staglia sul mare azzurro e lo smeraldo della vegetazione. Né vanno escluse opere pubbliche di notevole interesse come il complesso della Cittadella universitaria, che sorge nella zona nord della città, sulla circonvallazione di «Barriera», occupando una vastissima area; veramente degno di nota per la sua razionale architettura ed attrezzatura.
Foto tratta da Catania di Federico de Roberto, Pellicanolibri

Vanno pure ricordati edifici come quello del giornale «La Sicilia» sulla circonvallazione est e la nuova chiesa di S. Euplio opere dell’architetto Raffaele Leone.
Per concludere aggiungiamo che sebbene Catania vanti grandi tradizioni letterarie, potendo annoverare fra i suoi figli illustri uomini come Domenico Tempio, Giovanni Verga, Mario Rapisardi, Federico De Roberto, oggi questa tradizione si è un po' perduta.
Comunque da qualche anno è rinato l’amore per il teatro ed oltre a quello lirico, il «Massimo», ed a quello ufficiale per la prosa, lo «Stabile» ne sono sorti innumerevoli altri come il «Teatro Club» a piazza S. Placido, il «Piccolo Teatro» in via Costanzo, e gruppi sperimentali e d’avanguardia, diciamo senza sede.

In conclusione, noi che scriviamo e che siamo catanesi auguriamo che le cose buone della nostra città non vengano ancor più trascurate e diciamo chiaramente che il motivo principale che ci ha spinto a compiere la nostra fatica era proprio di portare a conoscenza ciò che giorno per giorno abbiamo sotto gli occhi senza accorgercene.


Catania, Guida ai monumenti, Muglia, 1974, settima parte

Luccjo Cammarata e Beppe Costa: Catania,
Guida ai monumenti, Muglia, 1974


La casa di G. B. Vaccarini  e l'edilizia civile

Porta Garibaldi
I centosessantasette anni che corrono dal grande terremoto all’Unità d’Italia si può dire furono impiegati per riedificare ciò che il terremoto aveva distrutto in un attimo; e se si pensa al numero incredibile di avvenimenti storici che si susseguirono in questo lasso di tempo, ci si stupirà delle bellezze della città, bellezze che sembrano essere una sfida contro l’oppressione e la miseria e un’ esaltazione della parte migliore dell’uomo.
Non era ancora trascorso un ventennio dal terremoto, che la guerra di successione spagnola si concludeva col trattato di Utrecht (11 aprile 1713) che riconosceva Amedeo II di Savoia re di Sicilia. Questi la cedette all'Austria in cambio della Sardegna. L’isola non fece neppure in tempo a cambiare padrone che la guerra di successione polacca finiva con la Pace di Vienna (1735) e la Sicilia veniva assegnata a Don Carlos III di Borbone, sovrano di Spagna. I Borboni la governarono con il titolo di «rex utriusque Siciliae» finché, nel 1816, Ferdinando IV non la fuse al regno di Napoli creando il Regno delle Due Sicilie e assumendo il nome di Ferdinando I. A questi mutamenti politici bisogna aggiungere le calamità naturali che hanno continuato ad affliggere Catania (ricordiamo il tremendo terremoto del 1818). Ciononostante, i catanesi hanno sempre trovato la forza di reagire sia alle avversità naturali, sia ai soprusi dei dominatori.
Mal sopportando l’inetto e paternalistico dominio dei Borboni, i catanesi si ribellarono nel 1837 e nel 1848; molti furono inoltre i cittadini che indossarono la camicia rossa dei garibaldini e, quando il 31 maggio 1860 la città venne annessa all’Italia, non furono certo molti i nostalgici dell'«ancien regime».
La rivolta del 1837 è ricordata da una lapide posta nell’attuale piazza dei Martiri e dedicata alla memoria degli otto liberali fatti fucilare dal ministro borbonico Del Carretto. Al centro della piazza sorge una colonna posta di fronte al mar Jonio e proveniente dal Teatro, sulla cui sommità è posta una statua raffigurante «S. Agata che schiaccia l'Idra della peste», eretta nel 1743 a ricordo di una luttuosa epidemia. L’opera è dello scultore Michele Orlando.
Un edificio di periodo borbonico sorge in piazza Majorana all’incrocio tra le vie Antonio di S. Giuliano e Ventimiglia. Si tratta di una costruzione che possiede tutte le caratteristiche tipiche all’edilizia militare in quanto venne edificata ad uso carcerario. La prigione si presenta su pianta quadrata con al centro un ampio cortile e sui prospetti tre file di finestre munite da inferriate. Venne fatta edificare sotto Francesco I re delle due Sicilie intorno al 1830 come indica la targa posta sopra l'ingresso.
Prima del terremoto il quartiere «Civita» non aveva l’attuale aspetto di zona prevalentemente abitata da miseri pescatori, bensì vi s innalzavano le case e le ville di quasi tutti notabili cittadini che, sin dal medio evo, l'avevano scelto a loro sede per la bella vista su mare e la frescura della vegetazione. Distrutto interamente dal sisma (salvo palazzo Biscari) il quartiere, la nobiltà fece ricostruire i suoi palazzi sulle tre nuove strade principali tracciate dal piano regolatore: il «Corso», oggi via Vittorio Emanuele, via Ferdinanda, oggi via Garibaldi, e via Etnea. La zona della Civita restava comunque un’attrattiva e un'oasi di pace per chi avesse voglia di vivere lontano dal chiasso delle strade principali; ed è proprio qui che G. B. Vaccarini credette opportuno costruire la propria abitazione.
La casa, attualmente in uno stato di totale abbandono, si erge a ridosso del palazzo Serravalle, dietro il collegio Cutelli su un’area : sparsa di casupole mezzo diroccate, tra cumuli d’immondizia e il fetore stagnante dei rifiuti perennemente abbandonati nella zona. La dimora non è né grande né principesca, ma così armoniosa nelle linee da costituire senza dubbio una delle migliori opere del grande architetto, una volta tanto libero di esprimersi senza dover soddisfare le manie di grandezza dei nobili catanesi. Nonostante i muri siano parzialmente rovinati e corrosi, e in parte addirittura diroccati, si può ancora ammirare il portico avente tre archi a tutto sesto ai quali si aggiunge un quarto tribolato, archi coronati dalla transenna che limita la terrazza e sulla quale danno le stanze superiori.
Non lontano dalla casa, sulla piazza omonima, sorge il collegio Cutelli, un bell’esemplare di costruzione realizzata da Stefano Ittar, mentre del Vaccarini è il cortiletto circolare a porticato. Tra gli edifici che sorgono in questa zona della via Vittorio Emanuele vi sono i palazzi Valle e Serravalle, entrambi del Vaccarini; il palazzo Reburdone col cortile disegnato dall’immancabile architetto palermitano; e il palazzo Bonajuto posto all’angolo dell'omonima piazza. Sempre in via Vittorio Emanuele, ma sulla parte occidentale, sorge l’austero palazzo Marletta (all’angolo con la piazza del Duomo) e l'imponente palazzo Bruca (sul lato sinistro prima d’arrivare a piazza S. Francesco) di cui è ammirevole l’altissimo portale a lesene accoppiate e il cortile con una fontana posta al centro; sullo sfondo fa da scenografia un portico in stile jonico.
La via Garibaldi, parallela al «Corso», è sempre stata un’arteria vitale della città, sempre affollata di traffici e di commerci. Ancora oggi, sebbene il centro della città si sia spostato più a nord-ovest, i catanesi delle classi meno abbienti vi vengono, richiamati dalla presunta politica di buon mercato che tradizionalmente vi si attua. La strada è ricca di palazzi del '700, tanto da meritare più d’una semplice citazione.
Teatro Massimo Bellini progettato da Andrea Scala
Apre la rassegna il palazzo dei principi del Pardo, palazzo posto ad angolo con piazza Duomo a fianco della fontana dell’Amenano. Ricco di decorazioni, sono interessanti le massicce cornici tipiche del barocco catanese e i ballatoi ornati di sculture con maschere fantastiche.
Nelle vicinanze, in via Martino, una lapide ricorda l’albergo in cui soggiornò Wolfgang Goethe dal 2 al 5 maggio 1787.
Andando avanti si incontra piazza Mazzini (ex piazza S. Filippo) cinta da portici che sostengono delle estese terrazze dagli ampi balconi. Nel realizzare quest’opera, gli architetti Stefano Ittar e Francesco Battaglia utilizzarono 32 colonne provenienti dalla basilica romana scoperta durante i lavori del convento di S. Agostino. Per il popolo catanese, piazza Mazzini è «a chiazza de’ morti», in quanto sino a pochi anni fa vi si teneva un mercato di dolci e giocattoli in coincidenza coi giorni della Commemorazione dei defunti; ciò per l’antica tradizione di fare doni ai bambini il 2 novembre, attribuendo ai defunti della famiglia la facoltà di donatori: una festa di S. Nicola anticipata di due mesi! Al termine della strada si apre piazza Palestro, nella quale troneggia Porta Garibaldi (meglio conosciuta come «u furtinu»). Si tratta di un bell'esemplare di costruzione barocca realizzata in conci di lava e pietra bianca di Siracusa, sormontata da un grande orologio coronato da un’aquila. Ricchissima di ornamenti e di figure simboliche con mascheroni e trofei, tra cui il rilievo di un elefante, simbolo della città che vuole essere esaltata dalla porta (come indicano le scritte laterali: «Litteris armatur» e «Armis decoratur»). La monumentale costruzione, opera di Francesco Battaglia e di Stefano Ittar, venne eretta in occasione del matrimonio fra Ferdinando IV di Borbone e Maria Carolina d’Austria (1768), e per lungo tempo fu chiamata «Porta Ferdinanda»; dopo l’unificazione fu dedicata all’eroe dei due mondi. Rispetto alla sua originaria progettazione, l’attuale sistemazione è molto alterata, in quanto oltre che la Porta, tutta la piazza era strutturata in maniera assai diversa.
In un’incisione dei primi dell’ottocento, dovuta al genio di Sebastiano Ittar, figlio e nipote degli architetti realizzatori, la Porta figura in mezzo alla piazza ed è chiusa ai lati da due bastioni; nella parte mediana sono inseriti due torrioni, due file di eleganti edifici bassi a portico fiancheggianti la piazza, mentre il primo piano è realizzato a giardino con al centro un viale terminante in due colonne sormontate da sculture con trofei di armature imbandierate.
Quando nel 1932 si procedette al restauro e ad isolare la Porta nella maniera che attualmente la vediamo, questa era inserita in modestissimi fabbricati che ne deturpavano la visione.
Il monumento che i due architetti costruirono in maniera sontuosa corrispondeva alla nuova arteria esterna che, dopo il terremoto venne tagliata per rendere più comodo ed appariscente l’accesso a quanti provenissero da Palermo. Così la Porta sostituì il vecchio ingresso che era molto più piccolo e risultava decentrato rispetto alla nuova strada. Di questa antica Porta sono ancora visibili i resti che si trovano ubicati in fondo a via Sacchero. Si tratta di un grande arco in pietra lavica stretto tra vecchissime case e posizionato sul lato est, quasi parallelamente alla Porta Garibaldi. Il popolo lo chiama ancora il Bastione o Fortino vecchio, in quanto ad esso anticamente facevano corona i muri di cinta della città con relativi fortilizi per la difesa.
La prima e più importante strada tracciata dal Duca Lanza di Camastra, inviato dal viceré Gian Francesco Paceco Duca di Uzeda, fu via Etnea (che spesso il popolo insiste ancora nel chiamare «a strata ritta») che congiunge in linea retta il mare con le prime pendici del vulcano. Qui i notabili e i patrizi più pretenziosi costruirono le loro comode e lussuose dimore, che furono realizzate dai migliori architetti e che, pur facendoci riflettere sulla vanità di coloro che invece di migliorare le condizioni del popolo hanno speso il loro denaro per soddisfare il desiderio di sentirsi «importanti», rimangono come una mirabile testimonianza dell’arte barocca.
Tra gli edifici di maggior pregio che, partendo da piazza Duomo, si allineano sui due lati della strada, citiamo quello appartenuto ad una delle famiglie nobili che ebbero, per secoli, sopratutto nel cinquecento, un ruolo di grande preminenza nella vita pubblica della città, ricoprendo molto spesso cariche politiche ed amministrative: i Gioieni, discendenti da Arrigo d'An giò, consanguineo di Carlo I d’Anjou.
L’edificio è sito all’angolo fra via Etnea, piazza Università e via Euplio Rejna. Attaccato al muro, sul fianco dell'ingresso principale che si affaccia sulla piazza, un bassorilievo bronzeo (opera dello scultore Mario Rutelli, del primo novecento) ricorda Giuseppe Gioieni d’Angiò, grande naturalista (1747-1822).
Sempre sulla piazza, di fronte al palazzo dell’Università, sorge un altro edificio di grande armonia architettonica, il palazzo dei marchesi di S. Giuliano, oggi proprietà del Credito Italiano. Costruito dal Vaccarini tra il 1738 e il 1745, nell’insieme ricorda un edificio del Vanvitelli che si trova a Napoli, il palazzo Fontana Medina.
La Fontana di Plutone e Proserpina, opera dello scultone
Moschetti, eseguita nel 1912

I San Giuliano, come i Gioieni, fanno parte di quel gruppo di famiglie catanesi notabili suaccennate. Uno di essi, Antonio Paterno Castello, marchese di S. Giuliano, fu statista insigne. Morì a Roma nell’ottobre del 1914.

Sul prospetto dell'edificio che guarda via Euplio Rejna una targa marmorea ricorda il famoso teatro dialettale di Catania «Machiavelli», che fu la scuola iniziale di attori come Giovanni Grasso e Angelo Musco.
Sul lato opposto fanno da cornice alla chiesa della Collegiata due edifici, il secondo dei quali è quello di Casa Biscari. Quasi di fronte, prima di giungere ai «quattro canti», si trovava un bel prospetto di antico palazzo nel quale si apriva il balcone da cui Garibaldi lanciò il proclama «O Roma o morte!». Essendo il palazzo gravemente lesionato, anziché restaurarlo, si decise d’abbatterlo; attualmente si sta procedendo alla costruzione d’un nuovo edificio che, secondo le autorità preposte alla fabbrica, sarà identico a quello abbattuto (?).
Sullo stesso lato della strada sorge il settecentesco palazzo Carcaci; di fronte a questo, il palazzo S. Demetrio che fu il primo ad essere innalzato dopo il terremoto, come ricordato da due iscrizioni poste nell'atrio e in cui figura il nome del proprietario (Eusebio Massa barone di S. Gregorio e precettore della Valle dei Boschi).
L’edificio, in pietra bianca, è ricchissimo di bassorilievi ed ornamenti ed è opera di Pietro e Francesco D'Amico e di Pietro Flavetta. Quasi interamente distrutto dai bombardamenti aerei del 1943, venne riedificato nel dopoguerra e possiamo considerarlo più una copia dell’originale che un restauro.
Dietro palazzo Carcaci, sulla piazza omonima, si erge maestoso uno degli edifici monumentali della città: il palazzo dei principi Manganelli.
Sulla piazza Stesicoro, con una delle facciate che dà sulla via Etnea, si staglia inconfondibile il palazzo Tezzano. Costruito nel 1724 da Alonzo Di Benedetto, il prospetto guarda l'Anfiteatro romano con il coronamento turrito su cui appaiono; le teste di due mori col grande orologio sotto le campane. Sino al 1880 il palazzo fu sede dell’ospedale di S. Marco, poi sede del Tribunale e infine dal 1953 è adibito a scuola pubblica
Di fronte al palazzo Tezzano, e in posizione identica, s'innalza il palazzo del marchese del Toscano. È una colossale costruzione d’ispirazione rinascimentale, opera dell’architetto napoletano Errico Alvino (1864). L'edificio sorge su un antico palazzo del Vaccarini, ch’era del nobile Pietro Maria Tedeschi Bonadies. Gli sta vicino, tra la piazza e il corso Sicilia, il palazzo del barone Beneventano (che in parte ne ricalca lo stile).
All’angolo fra via Etnea e via Pacini sorge il palazzo del principe del Grado, opera di Carlo Sada.
Superato l’ingresso del Giardino Bellini, la casa dove morì Federico De Roberto e, di fronte (ad angolo con via Umberto I), il prospetto della casa del barone Pancàri, anch’ essa realizzata dal Sada e di gusto barocchetto.
Prima di giungere a piazza Borgo si incontra un’altra opera del Sada, l’ex palazzo Libertini, e, quasi di fronte, l’Orto Botanico (fondato nel 1858 dal prof. Mario Di Stefano) in cui si trovano molte culture di piante rare, e una serra riscaldata per le piante tropicali.
Al numero civico 575, all’altezza del secondo piano, una lapide ricorda la casa del poeta Mario Rapisardi (che vi morì il 4-1-1912). Sullo stesso lato, cento metri più avanti, l’Ospizio dei Ciechi fondato da Tommaso Ardizzone barone di Gioieni (1911) e del quale il grandioso complesso porta il nome.
Si giunge così al «Tondo Gioieni», fine della via Etnea e inizio d’un importante nodo stradale che congiunge la circonvallazione con le arterie di smistamento per i paesi dell’Etna.
Questa la Catania che seppero creare i nostri artisti del XVIII secolo. Una città «salotto», ricca di opere d’arte e di monumenti superbi, di edifici dall’euritmia sognata, cui si aggiungevano i «silenzi stradali» del tempo, il traffico pigro delle carrozzelle che produceva rumori ovattati, senza la frenesia attuale. Solo immaginando questo è possibile apprezzare in pieno tutte quelle opere, incasellandole nel loro giusto posto di opere che assolvono in pieno funzionalità ed estetica. Certo, le auto che hanno invaso la via Etnea sfavillante di neon, rappresentano una realtà indiscutibile del nostro tempo. Ma se accanto ad una di esse sonnecchia pigra una carrozzella da nolo, il nostro occhio abbandona il mostro d’acciaio e si fissa a guardare quell’immagine romantica che ci riporta ad antichi tempi, con simpatia ed amore, come il volto di un familiare in una folla indifferente e forestiera. Ciò deriva, forse, dal fatto che non è vero il detto che tutto il mondo è paese, essendo la cosa, può darsi, al contrario; ossia che ogni paese possiede un clima proprio.
Riprendendo il regolamento urbano della Catania dell’ottocento, potremo rivivere il traffico e le vecchie usanze dell’epoca. È opportuno non- perdere di vista i monumenti passati in rassegna, e con essi raggiungere la riva dell’ottocento. Si sgombrino perciò idealmente dai traffici attuali le vie della città, si spengano le luci elettriche e al posto degli affollati caffè e dei negozi variopinti ricollochiamo le botteghe scure e le osterie, che sorgevano alla «rotonda» o al «corso». Si fissi il pensiero sulle strade illuminate da fanali a gas, lungo le file dei palazzi barocchi più superbi delle moderne costruzioni, con l’illusione di vedere i vecchi «landaous» ed incontrare geni immortali come Rapisardi e Tempio. Si avrà così l’impressione, al crepuscolo, di ritrovarsi in una cittadina di provincia, dove tutto è rimasto intatto ed immutato. E saremo tornati indietro nel tempo.
Così fantasticando si ha un’idea dell’antica Catania.
Nell’agosto del 1853, il Comune approvava, sotto gli auspici dell’Intendente della città, un regolamento di polizia urbana, atto a tutelare il traffico stradale. Esso entrò in vigore nel 1860, rendendo arguta l’atmosfera ottocentesca e romantica di un periodo calmo e silenzioso, almeno per quanto riguarda il traffico:
«...Coloro che lasciano fuori della propria abitazione nelle ore notturne i cani, che con i loro urli e latrati turbino la quiete pubblica, andranno soggetti al pagamento da uno a tre ducati di multa... Coloro che situassero mangiatoie nelle strade, o tenessero gli animali legati alle statue o alle dansure di ferro delle chiese, saranno multati dì carlini ventinove... Nel largo della marina, le carrozze, le carrette da trasporto ed i cavalli debbono correre la passeggiata, tra il muro del seminario e la prima fila degli alberi, senza entrare nel secondo viale, pena al contravventore di quaranta carlini. Esigibili anche dal proprietario del mezzo, salvo a costui la facoltà di farsi rimborsare dal guidatore... Il mercato di lunedì in piazza Stesicorea debbasi svolgere in perfetto ordine..., si avrà cura di lasciare libero il passaggio della strada principale da parte degli ambulanti».

Questo il fondo retrospettivo in cui si plasma il traffico urbano della vecchia Catania. Naturalmente, riaprendo gli occhi e tornando alla realtà dei nostri giorni, tutto ciò appare anacronistico, eppure questa nota la crediamo utile per meglio capire cosa fosse la città di un tempo.

Catania, Guida ai monumenti, Muglia, 1974, sesta parte

Luccjo Cammarata e Beppe Costa: Catania,
Guida ai monumenti, Muglia, 1974

La via dei Crociferi e i monumenti barocchi sull'Acropoli

Ogni città ha una via che, per motivi architettonici o storici o folkloristici, gode di un’attrattiva e di un fascino particolari.
Un angolo di via dei Crociferi. In primo piano l'ex Convento dei Gesuiti
È questo il caso della catanese via dei Crociferi; essa, per la ricchezza e la validità dei monumenti di cui si vanta, emana una suggestione tale da mettere chiunque abbia un minimo di sensibilità artistica in uno stato d'animo che, senza esagerare, potremmo chiamare di «grazia». Purtroppo il traffico caotico e assordante ha un po’ attenuato l'atmosfera tipica di questa strada; ma fino a pochi anni fa chi passava (specialmente nelle ore mattutine o al momento dell'Angelus) si trovava come ravvolto nei canti dei cori provenienti dalle chiese e dai delicati suoni degli organi misti, in soavi armonie, coi rintocchi delle campane provenienti dai conventi. Oggi solo nelle ore notturne si possono vivere simili momenti, solo allorquando la strada è sgombra di automobili e i fari posti a illuminare le chiese colorano d'una drammatica teatralità le linee barocche i prospetti dei monumenti su esse poste dal gusto dei costruttori
La suggestiva via Crociferi è lunga non più di quattrocento metri; essa percorre a mezza costa la collina che ad occidente sovrasta la città. Quasi sicuramente è la più antica strada cittadina in quanto è la stessa che in periodo romano univa il Teatro all’Anfiteatro, collegando ad essi, con una trasversale, pure l’Odeon. Partendo da piazza S. Francesco essa si stende in linea retta, con una discreta pendenza, fino al bastione di Carlo V, terminando davanti al portale della principesca Villa Cerami.
La piazza le fa da vestibolo con al centro il monumento bronzeo al Cardinale Benedetto Dusmet che giganteggia — se pure ritratto in maniera piuttosto innaturale — nell’atto francescano del pio che dona ai poveri. Ai lati del basamento due formelle bronzee, raffiguranti scene della vita del Presule, sono opera dello scultore catanese M. M. Lazzaro, recentemente scomparso.
Sul lato destro della piazza, corrispondente alla parte meridionale dell’Acropoli greca, sorge la chiesa di San Francesco, comunemente chiamata dell’Immacolata, che apre la serie chiese e conventi che si affiancano sui due lati di via Crociferi. La chiesa ha un’imponente facciata a due ordini di lesene che, pur se di scarso valore artistico, sono di grande effetto monumentale. L’interno della chiesa, a tre navate, è di maggiore interesse; ivi è conservata la salma di Eleonora d’Angiò moglie di Federico II d’Aragona. Troviamo nella chiesa una serie di dipinti di discreto interesse: uno «Sposalizio della Vergine» di Antonio Gramignani, una copia dello «Spasimo di Sicilia» di Raffaello (1541) firmata da Jacopo Vignerio, le «Virtù cardinali» dipinte da Olivio Sozzi (questi ultimi si trovano sui pennacchi della finta volta). V’è inoltre una statua d'ottima fattura settecentesca in legno policromo raffigurante l’Immacolata, e da cui ha preso il nome popolare la chiesa.
Piazza S. Francesco è congiunta con via Crociferi dall’arco detto di S. Benedetto, congiungente i due fabbricati della Badia grande e della Badia piccola, fronteggiantisi ai due lati della strada. L’arco (del 1704) è arricchito da finestre che danno sulla strada; secondo la tradizione fu costruito in una sola notte da maestranze ecclesiastiche, così da mettere di fronte al fatto compiuto le autorità laiche che si opponevano al congiungimento delle due parti del monastero benedettino.
La stupenda facciata della chiesa di S. Benedetto,
in via dei Crociferi. Opera dell'architetto G. Palazzotto
Subito a sinistra dell’arco si eleva la chiesa di S. Benedetto la quale, insieme ad altre tre chiese e ai tre conventi, forma il nucleo centrale dei monumenti settecenteschi di via Crociferi. La chiesa, opera di Alonzo Di Benedetto, fu costruita negli anni dal 1704 al 1713 accanto al monastero preesistente, intonandosi perfettamente all'architettura della via. Il magnifico prospetto rievoca influssi del Vaccarini, del Borromini e non pochi «elementi locali». La facciata si eleva alta su di una gradinata ed è a due ordini di semicolonne nella parte bassa e di lesene in quella alta; la trabeazione è interrotta dal timpano curvo spezzato, e ciò (assieme al portale e alle balaustre) richiama da vicino lo stile del Vaccarini. Ad arricchire ulteriormente la facciata aumentando l’effetto chiaroscurale contribuiscono varie sculture (notevoli quella della Immacolata al centro, e le due figure simboliche sedute ai lati del cornicione limitante il balcone), uno stemma col busto di S. Benedetto, situato sul timpano, e gli ornamenti lignei del portale raffiguranti scene della vita del Santo, opera questa veramente degna di nota. L'interno, molto semplice, è a una sola navata ed è preceduto da un elegante vestibolo ove si trova una scala adorna di angeli in stucco. La volta a botte, la calotta della cupola e l'abside sono riccamente decorate da affreschi di Giovanni Tuccari (1726) raffiguranti la «Gloria di S. Benedetto», la «SS. Trinità», e una « Incoronazione della Vergine». Sui primi due altari si ammirano due splendide tele della fine del settecento: una di Matteo Desiderato raffigura «Tobia e l’Arcangelo Raffaele», l’altra di Sebastiano Lo Monaco raffigura «L'Immacolata». Oltre a un bell’esemplare di organo rococò posto sulla porta, si nota, per la ricchezza di marmi e di decorazioni in bronzo dorato, l’Altare Maggiore.
Sempre sul lato sinistro della strada, segue la chiesa di S. Francesco Borgia; essa fa parte del complesso del monastero dei Gesuiti da cui prende il nome popolare. La chiesa è divisa da quella di S. Benedetto da una viuzza in salita che conduce ad una piccola piazza in cui è sito un elegante palazzo settecentesco (palazzo Asmundo), una delle tante dimore padronali del centro antico, degno di nota per il gioco chiaroscurale della facciata e per i ricchi saloni rococò.
Disegnata da Angelo Italia sul finire del settecento, la chiesa dei Gesuiti ha maggiore semplicità e slancio di linee della precedente. Elevata su un’alta gradinata a due rampe, la facciata è realizzata a due ordini di colonne accoppiate con un portale che ne ripete il motivo. Le colonne binate seguono lo stesso ritmo anche nell’interno, ove nella cupola possono ammirarsi gli affreschi raffiguranti «L’esaltazione della Compagnia di Gesù» eseguiti da Olivio Sozzi, nel 1760. Di superba bellezza è il primo dei quattro cortili facenti parte del monastero, opera del gesuita Giuseppe Pozzi. L'edificio monastico era fino a pochi anni orsono adibito a Casa di rieducazione per i minorenni (per cui i catanesi lo chiamarono «u cunvittu»), oggi è invece degna sede dell’istituto Statale d’Arte.
Il padiglione neo gotico in maiolica policroma,
al centro del primo chiosco del Monastero
Sul lato opposto, quasi di fronte alla chiesa dei Gesuiti, si erge quella che va considerata la chiesa più importante di via Crociferi, ossia quella di S. Giuliano, facente anch’essa parte di un ex monastero (oggi sede della Camera Generale Italiana del Lavoro). È la chiesa più maestosa sita in via Crociferi e una delle massime espressioni del barocco catanese. Venne iniziata molto probabilmente dall’architetto Giuseppe Palazzotto intorno al 1738 e terminata quasi certamente del Vaccarini che ne realizzò il prospetto (1760); nell’aprile del 1763 fu consacrata dal papa Clemente III e da Ferdinando II re delle due Sicilie al pontefice catanese S. Giuliano. Il prospetto della chiesa è in calcare e si leva su di una larga gradinata con la parte mediana della facciata convessa coronata da un loggiato che gira attorno al corpo centrale dell’edificio. Un’imponente cancellata (1832) chiude la gradinata avvalorando la convessità dell’edificio. L’interno è a pianta ellittica di tipo borrominiano arricchita da due bracci all'estremità dell’ellisse dimostranti chiaramente l’ispirazione ai contemporanei monumenti romani anche per i due ambienti laterali posti all’ingresso e che danno l'impressione d’essere due navate. L’edificio è sormontato da una cupola di copertura non visibile dall’esterno in quanto nascosta dentro una lanterna ottagonale. È pregevole l’altare maggiore, ricchissimo di marmi rari e bronzi dorati culminanti in un tronetto adorno di due statue in marmo bianco («La carità» e «La fede»). Sull’altare è posto un Crocifisso su tavola (XIV secolo) in stile bizantineggiante. Sul primo dei quattro altari è posto un dipinto del 1643 di Pietro Abbadessa raffigurante «S. Antonio Abate»; sul secondo una tela del XVIII secolo (opera di Olivio Sozzi) raffigurante la «Madonna con i Santi Giuseppe e Benedetto». Sul primo altare di sinistra è posto un gruppo marmoreo di notevole effetto drammatico raffigurante «Il Crocifisso con la Maddalena, l’Addolorata e S. Giovanni».
Superata la via di S. Giuliano, sull’altro lato della strada (a destra) si erge la chiesa di S. Camillo; subito dopo la via Crociferi finisce interrotta dal settecentesco portale di villa Cerami che incornicia un inaspettato pezzo di verde, mantenendo così, nonostante le modifiche avvenute nel tempo, quasi inalterato il proprio fascino. Questo, grazie all’intervento dell' Università di Catania che acquistò la villa sottraendola alle speculazioni, e adibendola, dopo attenta opera di restauro, a sede della Facoltà di Giurisprudenza. All’epoca dell’acquisto, le condizioni della villa erano disastrose e più del 60 per cento dell’edificio s’è dovuto ricostruire; l'intervento di restauro si è reso necessario anche per il parco ed è stata un’opera accuratissima dovuta alla consulenza dell'istituto di Storia dell’Arte, diretto in quel tempo dal prof. Stefano Bottari. La direzione dei lavori fu affidata all'architetto Leone e fu portata a termine nel 1962.
Dall’incrocio di via Crociferi con l'arco di S. Benedetto inizia la via Teatro Greco che, attraversando l’Odeon e le Terme della Rotonda, conduce sull'altura dell’Acropoli, oggi piazza Dante. E in questo spiazzo culmina l'architettura catanese col complesso dell’ex Convento Benedettino e la sua monumentale chiesa di S. Nicolò l’Arena che domina la piazza.
II grandioso edificio più che un convento pare una reggia, mettendo in risalto la pretenziosità dei monaci; fu iniziato nel 1558 dal catanese Valeriano De Franchis e comprendeva, oltre alla chiesa, una parte dell’attuale complesso quali i dormitori, i refettori e il chiostro occidentale. Danneggiato dall’eruzione del 1669, i monaci diedero incarico di ricostruirlo all’architetto romano Giovanni Contini; si stava procedendo alla sua riedificazione quando il terremoto del 1693 lo rase quasi al suolo.
La nuova costruzione venne iniziata intorno al 1703 ad opera dell’architetto Antonio Amato ma, come tutte le opere colossali, vide avvicendarsi nella direzione dei lavori (protrattisi sino all’ottocento) numerosi architetti che dettero il loro apporto e la loro interpretazione del progetto. Sicuramente vi lavorarono Alonzo Dì Benedetto, G. Battista Vaccarini, Francesco Battaglia, Antonio Battaglia, Stefano Ittar e Carmelo Battaglia Santangelo.
Sia la parte frontale sia quella laterale è a grosse lesene a bugnato, racchiudenti due piani di finestre a balconi incorniciate con esuberante vena decorativa, e con mensoloni raffigurane maschere mostruose. Il grande portale dell’ingresso principale, di gusto neoclassico a colonne binate e sormontato da un balcone, è dovuto a Carmelo Battaglia. Dal portale si accede in un vestibolo che porta al monumentale scalone, ornato di stucchi su fondo azzurro che conserva quasi per intero l’originaria forma. Attraverso un altro portale, d’un fastoso barocco, si passa nel primo chiostro ad arcate colonnate inquadrate da lesene doriche; nel mezzo un padiglione pseudo gotico rivestito di maiolica policroma e attorniato da palmizi. Sia il padiglione che il portale sono dell’800. Il secondo chiostro, quello occidentale, con cinquanta colonne marmoree, ha finestre nelle terrazze negli ambulacri decorati con sovrabbondanti incorniciature tipiche del barocco catanese.
La chiesa, la cui facciata è rimasta incompiuta, è di grandiose proporzioni (è la più vasta della Sicilia) e vi si notano le quattro grandiose coppie di colonne rimaste a metà e che avrebbero dovuto reggere il frontone popolato di statue. Misura in larghezza m. 39 (48 nel transetto) per 105 di lunghezza; venne iniziata mentre si ricostruiva il convento sul progetto eseguito da Giovanni Contini. L’interno a croce latina a tre navate divise da colossali pilastri a lesene accoppiate è, a differenza del convento, di una nudità monacale rotta solo dagli altari ornati di quadri con un armonico gioco visivo. L'interno ha una vastità impressionante. La cupola, opera di Stefano Ittar, ha un’altezza interna di m. 62; attraverso una strombatura nella porta maggiore è possibile salirvi: 130 gradini arrivano al cornicione, altri 65 fino al tamburo. Da quest’altezza si ha la più ampia visione di Catania: oltre ad avere un’ottima vista dell’Etna e dei paesi sulle sue falde, si distingue Taormina e, nelle giornate limpide, la costa calabra e l'Aspromonte. Sul pavimento lungo il transetto, una meridiana di marmo è meta di un pellegrinaggio di curiosi. I disegni dei segni zodiacali che vi si trovano intarsiati vengono atribuiti allo scultore danese Albert Thorwaldsen; fu costruita nel 1841 su disegno di Waltershauen e C. W. Peter Sartorius.
Un pezzo di eccezionale interesse è il famoso organo dall’altissima cassa lignea intagliata e dorata opera del catanese Donato del Piano (che vi lavorò 12 anni) di cui in sagrestia si conserva un ritratto. L’organo possiede 2916 canne, cinque tastiere e 72 registri; per la bellezza degli armonici possiamo affermare che è il più importante della città.
I quadri che trovano posto nella chiesa sono del ‘700 e dell’800, e sono in gran parte di scuola romana; senza essere dei capolavori sono delle opere di buona fattura. Oltre alle tele del Tofanelli e del De Rossi meritano una menzione particolare un «S. Gregorio» di Vincenzo Camuccini posto sul primo altare di destra, un «Martirio dei santi Placido e Flavia» di Placido Campolo, e, soprattutto, i «Santi Placido e Mauro» di Antonio Cavallucci posto sul transetto.
Nella parte absidale, oltre all’altare maggiore in marmi policromi di stile neoclassico, si trova un coro intagliato con scene evangeliche, opera di Nicola Bagnasco e di Gaetano Franzese; ai lati dell’altare due credenze lignee dorate dalle maestose forme barocche. Di notevole pregio gli armadi intagliati e decorati da finissime statue posti nella sagrestia che formano un elegante ambiente con la volta affrescata dal Pipero.
Una inquadratura del chiosco occidentale dell'ex Monastero
dei Benedettini
Dopo la guerra del ‘15-18 la chiesa divenne sacrario dei Caduti e pertanto, vicino alla sagrestia, venne costruita una Cappella in cui sono raccolte le salme dei catanesi caduti in guerra. Il sacrario fu decorato dal pittore Alessandro Abate e, in seguito, arricchito da una vetrata del romano Duilio Cambellotti.
Pare che uno dei chiodi che trafissero il Cristo sia conservato in questa chiesa, custodito in un prezioso reliquario tempestato di pietre preziose.
Del complesso monumentale dei Benedettini fanno pure parte l’attuale biblioteca civica Ursino Recupero e i locali dell’osservatorio astrofisico, siti sul retro della chiesa e con ingresso sulla via Osservatorio. Vi si entra passando sotto un arco situato in fondo alla piazza, e subito a destra dopo l’arco si incontra l’Istituto Ingrassia di medicina legale e una lapide che ricorda le terme romane che sorgevano in questo luogo. In fondo alla stradina una scala quasi nascosta in mezzo al verde conduce alla biblioteca. Originariamente questa era la biblioteca dei padri Benedettini; in seguito fu arricchita dal materiale proveniente dalla soppressione delle corporazioni religiose e dalla donazione del barone Ursino Recupero, consistente in oltre 40 mila volumi di enorme interesse soprattutto per la storia della città; più tardi il Comune acquistò la biblioteca del poeta Mario Rapisard e l’aggiunse al già ricco materiale della biblioteca. Vi si trovano raccolti volumi di inestimabile valore, incunaboli, pergamene, rogiti notarili, bolle pontificie e diplomi regi; vale pena di citare una «Divina Commedia» del secolo XV, una «Bibbia» del secolo XIV miniata di scuola del Cavallini, un «Salterio » del XIII secolo e un calendario rabbinico del XIV secolo. Il complesso della biblioteca è diviso in due ali dì cui quella est formata da cinque sale e quella ovest (divisa dall’altra da un corridoio) avente la magnifica sala Vaccarini e un’ampia sala rotonda in cui sono conservate le opere di teologia. La sala Vaccarini ha il soffitto affrescato con pitture del Pipero ed è arredata da una bellissima scaffalatura settecentesca, con  ballatoio. Nel vestibolo la sala Rapisardi ospita la biblioteca del poeta; nelle bacheche si possono ammirare i manoscritti e il carteggio oltre a delle suppellettili regalate dal poeta alla città natale.
L’osservatorio astrofisico ha ingresso nella piazza Vaccarini (posta al termine di via Osservatorio) e si trova anch’esso nei locali dell’ex convento. Esso venne fondato nel 1835 ed ebbe come primo direttore il modenese Annibale Riccò; la grande cupola dalla calotta argentata è visibile dall’esterno. In esso si compiono studi e ricerche sulla fisica solare; ospita inoltre il Circolo Meridiano di Ertel.
Oltre alle opere sin qui citate, e che sono le testimonianze più palesi degli sforzi compiuti per ricostruire la città, ve ne sono altre che, per motivi storici o più semplicemente per la loro posizione, tratteremo isolatamente.
Il primo fra questi monumenti è la chiesa di S. Maria dell’indirizzo (già citata) che sorge a piazza Currò. Come abbiamo già detto, la chiesa incorpora le rovine delle Terme; fu innalzata probabilmente intorno al 1616 dal viceré D. Pietro Girone come segno di ringraziamento alla Madonna che aveva dato «il giusto indirizzo» alla sua nave in pericolo nel 1610 (da qui il nome della chiesa).
Distrutta insieme al convento che vi sorgeva accanto (attualmente vi trova posto un edificio scolastico avente la stessa architettura) se ne iniziò la ricostruzione a più riprese (dal 1727 al 1835) come attesta l’iscrizione posta sul portale. Il prospetto, di Girolamo Palazzotto, si eleva su di una gradinata chiusa da una cancellata e da un parapetto, ed è ornato da un elegante portale. L’interno, a croce latina a una navata, presenta due cappelle quadrate in ciascun lato.
L'incompiuta facciata di S. Nicolò all’Arena  al centro della vecchia acropoli, 
considerata la chiesa più vasta di tutta la Sicilia.




Sulle rovine di una cappella paleocristiana venne costruita nel’700 la chiesa di S. Agata la Vetere, sita dopo la salita di via Garofalo, in uno spiazzo rientrante tra la via S. Maddalena e via Plebiscito; sembra che sia questo il luogo dove per otto secoli sorse la Cattedrale e pare che fino al 778 si estendesse su un’area comprendente anche l’attuale carcere di S. Agata e che fosse un ampio edificio a tre navate. Attualmente l’interno, semplicissimo, è a una sola navata; nel presbiterio possono vedersi parti di un altare del tardo medio evo con un bassorilievo raffigurante «Il martirio di S. Agata con S. Pietro e un Angelo». Recenti rilievi hanno messo in luce parti delle basi di pilastri appartenenti alla primitiva costruzione medievale. Oltre al sarcofago della Santa, avente rilievi tardo romanici sul fronte della cassa decorata da grifoni affrontati, vi si conserva l’arca lignea che per 500 anni contenne le spoglie della Martire catanese; dell’originario rivestimento restano alcuni pinnacoli gotici in argento. Tra i quadri, oltre una tela di discreto interesse di Antonio Pennisi raffigurante «S. Agata a cui appaiono S. Pietro e un Angelo» (1777), v’è una «Madonna dei bambini» di Giuseppe Sciuti (1898) piuttosto manierata.
Quasi di fronte alla chiesa sorge la facciata convessa di un’altra chiesa, facente parte dell’ex Conservatorio della Purità fondato nel 1775 e più volte rimaneggiato e ingrandito. La facciata elegante ed armoniosa porta la firma di Antonio Battaglia.
Non distante da questi due edifici, sulla piazza S. Domenico sorge l'omonima chiesa annessa al tuttora funzionante convento. La facciata neoclassica, anche se imponente, è di scarso valore artistico; l’interno è a una sola navata e non presenta un alto valore architettonico. Vi figurano però alcune interessanti opere quali un dipinto su tavola, attribuito a Innocenzo da Imola, raffigurante una «Madonna del Rosario», opera interessante più che per la fattura per il fatto che l’artista ha raffigurato ai piedi della Madonna i protagonisti del congresso di Bologna (1529): Carlo V, papa Clemente VII, il duca di Milano Francese Sforza, il cardinale Salviati, il cardinale Farnese e Alessandro De’ Medici; un «S. Domenico Ferreri» di Olivio Sozzi, un frammento di Madonna su tavola di Cesare da Sesto (quest’ultimo conservato nel convento), una soavissima «Madonna con bambino» scolpita da Antonello Gagini. Fra le curiosità si trova nella chiesa il corpo mummificato del Beato Bernardo Scammacca morto nel 1486.
In piazza Stesicoro è sita la chiesa S. Biagio dei padri Cappuccini, costruita a fine del XVIII secolo, con facciata classicheggiante. Questa chiesa è molto cara ai catanesi in quanto, secondo la tradizione, sorge sul luogo in cui S. Agata venne gettata nel fuoco. Nell’interno, accanto ad un altare, si trova un simulacro in una custodia di vetro che pare sia la fornace (carcarella) del martino -come ricorda una lapide: «Hic ardentibus volutata carbonibus». La chiesa è infatti comunemente chiamata «Carcarella ».
Nell’area del Duomo, dietro la Cattedrale, sorge la piazzetta di S. Placido, un piccolo angolo settecentesco ricco di architetture e di decorazione (vi si affaccia una parte del palazzo Biscari). Notevolissima la chiesa dedicata al Santo e disegnata da Stefano Ittar (1769), con la facciata fortemente convessa e ornata, nella parte mediana, di nicchie con statue; facciata realizzata a due ordini di lesene che ne seguono l’andamento a triplice curva. L’interno a una navata si presenta a semicolonne accoppiate e vi si possono ammirare un «S. Benedetto» opera di Michele Di Napoli da Terlizzi e una «Immacolata» di Michele Rapisarda. La chiesa faceva parte del convento delle Benedettine e nel cortile dell’ex monastero, con ingresso in via Landolina, si può ammirare una terrazza quattrocentesca decorata a pietre bianche e nere alternate e che faceva parte del palazzo Platamone.
Nella stessa piazza, le cariatidi di un portone barocco di un palazzetto hanno fatto erroneamente credere (per l’atteggiamento ambiguo e allusivo delle figure) che si tratti della casa del poeta Domenico Tempio.
Sempre di Stefano Ittar è il prospetto della facciata della chiesa di S. Martino dei Bianchi, situata in via Vittorio Emanuele. La facciata in marmo rosa (ora restaurata non molto felicemente) è di linea convessa ed è dei primi del ’700.
Sulla via Etnea, oltre alla chiesa della Collegiata, sorgono altre chiese di notevole interesse. Prima fra tutte la chiesa dei Minoriti, annessa all’edificio che oggi ospita il palazzo del Governo; i locali facevano parte del convento dei Chierici Regolari Minori, prima che nel 1876 venissero espropriati in seguito all’abolizione delle corporazioni religiose. Questo spiega perché tanti ex conventi siano oggi adibiti ad uso laico.
La chiesa dei Minoriti, ispirata chiaramente al barocco romano, fu eretta nel 1785; si presenta a due ordini di semicolonne. L’interno con una vasta cupola è a pianta centrale; un monumento in marmi colorati ricorda il fondatore Giovanni Battista Paternò. La chiesa è dedicata a S. Michele Arcangelo, una cui effigie su tavola, del XVI secolo, con decorazione di lamine d'argento cesellate, è conservata all’interno. Interessante un Crocifisso marmoreo della fine del '700 scolpito da Agostino Penna e un dipinto della stessa epoca raffigurante S. Francesco Caracciolo nell’atto di porgere la sacra veste dell’Ordine ai figli del duca d’Angiò re di Napoli.
Uno degli archi che fiancheggiano la chiesa
di S. Placido in via Museo Biscari
Nell’ultimo tratto di via Etnea si apre la piazza Cavour con l’antico «borgo», sistemata come un giardino e ornata al centro dalla fontana di Cerere, comunemente chiamata «Dea Pallade», eseguita dal catanese Giuseppe Orlando (1757) e fatta innalzare dal Senato a spese del pubblico erario. Sulla stessa piazza si eleva la settecentesca chiesa di S. Agata al Borgo che vanta alcuni interessanti affreschi eseguiti da Giovanni Lo Coco, detto «u surdu d’Aci», morto nel 1712; vi si trovano, inoltre, una tela di Olivio Sozzi e una di Vito D'Anna raffigurante l’Addolorata.
Sempre sulla via Etnea, sulla direttrice terminale di via Empedocle, sorge il Conservatorio delle Vergini al Borgo, volgarmente detto «La badiella», fondato nel 1776 dal sacerdote Giuseppe Giuffrida con l’appoggio finanziario della contessa di S. Martino Eleonora Statella.
Nella zona mediana di via Vittorio Emanuele (all’angolo con via Quartarone) si eleva, con una scenografica facciata, la chiesa della SS. Trinità. Il prospetto, completato da Stefano Ittar ha la parte mediana concava ed è realizzato a due ordini; due piccoli campanili ne completano l’armonia. L'interno, a pianta ellittica, scandito nel suo perimetro da lesene accoppiate; vi si accede per una scala che si sviluppa entro un vestibolo circolare. Vi possiamo ammirare tre opere di Olivio Sozzi e una «Vergine con S. Giovanni Evangelista» di Sebastiano Conca.
Sempre sulla stessa strada (cento metri più oltre) possiamo ammirare la chiesa di S. Agostino; disegnata dall’architetto Girolamo Palazzotto e di tipo barocco romano, ha il prospetto di largo respiro, impostato su due ordini di semicolonne. Alla chiesa, innalzata sull’area di una basilica romana, era annesso il convento.
Molte altre sono le chiese che meriterebbe una menzione, se non uno studio particolareggiato, ma crediamo di aver già detto abbastanza per un’opera che non vuole essere uno studio del barocco catanese bensì una panoramica dei principali monumenti cittadini. Tuttavia crediamo giusto citare a volo d’uccello alcuni monumenti che meriterebbero senz'altro di più. Tra questi: il Santuario della Madonna del Carmine che coll’annesso convento domina piazza Carlo Alberto; eretto intorno al 1730 e col prospetto parzialmente incompiuto, si presenta con due semicolonne corinzie che racchiudono una nicchia con la statua della Madonna. L'interno è a tre navate divise da pilastri; si lasciano ammirare un dipinto su tavola di Andrea Pastura raffigurante «La Madonna del Carmine tra i santi Elia e Bertoldo» (1501); una «Madonna del Carmelo che dà lo scapolare a S. Simone Stock» di Sebastiano Ceccarini (della seconda metà del '700) e una «Madonna con le sante Agata e Lucia» di Antonio Pennisi (fine '700). Il presbiterio fu affrescato dal catanese Natale Attanasio (1898); sull’altare maggiore le statue di Mosé e di Elia, nonché una tela raffigurante «L’Annunziata» del catanese Filomena (XVIII secolo).

Interessanti pure alcune chiese innalzantisi lungo la via Garibaldi, quali la scenografica chiesa di S. Chiara di Girolamo Palazzotto dallo stupendo pavimento marmoreo; quella della Madonna di Loreto; e quella di S. Maria dell’Aiuto sorgente in via Consolato della Seta.