ContrAppunti perVersi: Ruggero Orlando

ContrAppunti perVersi è una pubblicazione Pellicanolibri, 1990
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32a parte


Ruggero Orlando da Pellicanolibri
Etnea

Goethe ti contemplava da Reggio signora
Dei suoi e dei miei sentimenti
Minaccia lineare
Dal gradino che rosica l'infinito
E il punto e il tutto sposati
Spiano ironici il fuoco fluido
Ma io ti abbraccio e mi rinnovo
L'umile terra dal ventre di sole
Riveli imperterrita
Magnetismo gravità calore
Calcio e ferro
Per i crogiuoli dei cuori
Per chi nega i limiti
Restituitemi le bibite
Redimito di zagare
Antagonista della sterilità
Recherò la sabbia alle clessidre
Etna assetata come me
Katharmoi nuove orme
Darò ai calzari di Empedocle
Frammenti di fumo fra cui
Occhieggiano le costellazioni
Marca dell'effimero
Il sudore dei secoli dileguasi
come si liquefanno gli arcobaleni
Nell'unico azzurro
Non si imbavagliano le campane
La mestizia delle macine
Ha allontanato gli scoiattoli
Né leva inni più la laringe ustionata
O monte che rifiuti le rugiade
E partecipi ai pianti senza lagrima.



A una signora che trovate ostiche le mie composizione 
ermetiche e mi diceva: «Bisogna abbassarti al livello di Pe­trarca» 
ho dedicato questa stanza di metro petrarchesco.

All'incredibile fata

Tu ti avvicini come in un presagio 
Metereologico ansa di striato 
Isobare, l'estate
Scomparsa nel passato si riaccende 
Illusoria: e preziosa tra le fate 
Alternavi l'allegro con l'adagio 
Dandomi tutto l'agio 
Di conversare come chi si intende 
Di simboli al di là di pesi e bende,

Mutavi in arma la bacchetta e in pieno 
Calice completata offrivi cura 
Di ristagno, ritegno e di paura 
Uva spremuta nel contravveleno 
E in me venivan meno 
Ogni scudo e corazza e resistenza 
Che mi tennero senza 
L'amore scoppiettante alla tua fiamma 
Ora per me fortuna, cruccio e dramma.


Ruggero ascolta Anita Madaluni
100 autori raccolti in volume da me curato, con la prefazione di Luigi Reina dell'Università di Salerno. E ha dato vita a una rassegna in via del Boschetto. 
Inizio a pubblicare alcune pagine dell'Antologia, partendo dalla grande autrice e amica Amelia Rosselli, (e via via tutti gli altri autori), con lei ho avuto diverse occasioni in Sicilia e qualcuna anche a Roma, di condividere la solitudine della poesia.
Tentammo, dopo esserci riusciti per Anna Maria Ortese, di fare applicare la Legge Bacchelli, ma non fece in tempo. Ignara che ne avrebbe goduto i vantaggi, si suicidò l'11 febbraio del 1996

Anna Maria Ortese: Il treno russo, Verso Mosca

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2. Verso Mosca

Fosse effetto del vino o della stanchezza o di tutta quella somma di emozioni, vi riuscii senza difficoltà. Credo di aver dormito molte ore, un sonno confuso e pesante, pieno di una soffocata disperazione. Pensavo che non sarebbe passato meno di un mese prima del mio ritorno, e mi domandavo se sarei mai tornata: avrei potuto morire su quel treno, per un motivo qualsiasi, e sarei stata abbandonata in una qualsiasi località dal nome tanto difficile. Nessuno mi conosceva: solo dopo molto tempo la notizia sarebbe giunta a casa mia.
Svegliandomi, e prima ancora di ricordarmi in quale luogo fossi, sentii cantare dolcemente, in una lingua e in una melodia conosciuta. Non mi sbagliavo, era proprio l’antica Santa Lucia: placida e I’onda, docile il vento. Rimasi senza fiato, incantata. II treno sembrava fosse tornato indietro. Subito dopo, quasi a confondermi in questa straordinaria impressione, ecco le note mutare, e la donna - perché era una voce di donna - scoppiare nella gioia effervescente della più  famosa canzone di Napoli: a Mergellina.
Alzai la testa, ed ecco che cosa vidi.
Sdraiata a metà sul lettuccio di fronte al mio, la signora Lucia Ivanovic, facendosi vento con un cartone, cantava. II suo volto soffice e bianco, dall’ovale perfetto, era illuminato, e la giusta parola, da due magnifici occhi neri, ridenti e ingenui occhi di fanciulla più che di donna. I suoi capelli neri erano sciolti e attraversavano come una serpe d’inchiostro il cuscino. Era in sottoveste, con un asciugamano sul petto, e da questo asciugamano veniva fuori un braccio rotondo e morbido di un bianco latte. Non sembrava aver superato i venticinque anni e, da quel che si scorgeva da sotto I’asciugamano, sembrava piuttosto formosa e apatica. Seduto ai piedi del lettuccio, il signor Ivanovic, una specie di Cristo di legno, magrissimo, con una faccia ornata di un lungo naso paziente, era intento a cambiarsi un paio di calzini. II cugino, di cui scorgevo le gambe penzoloni dal lettuccio superiore al mio, era occupato invece a leggere la Pravda. Sul tavolino fra i due letti, sotto il finestrino, era collocato un vaso di vetro, con tre o quattro rose gialle, già un po’ sciupate. II finestrino era chiuso, e il sole prossimo a tramontare sul filo monotono della pianura, illuminava tutto: gli occhi neri della giovane, la testa scarna e le spalle ricurve del marito, più  un pezzo della Pravda.
Mi domandavo in che mondo fossi.
La donna mi tolse d’imbarazzo. Smettendo di cantare, mi chiese garbatamente di che città ero: Napoli o Milano? Aveva visto una targhetta con la parola Italia sul mio bagaglio. Benché si esprimesse in russo, io capivo quasi tutto, come si capisce un sardo o un calabrese, in certe situazioni, se il suo volto è espressivo. Dissi, pensando di farle piacere: Napoli.
«Bella, bellissima Napoli», disse proprio così, erano le uniche parole precise che conosceva del nostro paese, e le pronunciò con un accento così inconfondibilmente italiano, e un sospiro tale, che ne rimasi sbalordita. Disse ancora «canto», e scoppiò a ridere con una soavità indicibile, divertita dallo stupore che vedeva nei miei occhi. Tutto, in lei, aveva la grazia di un bambino e la mollezza e la noncuranza di un animale. Nel cantare, nel ridere, nel canticchiare, non aveva fatto un gesto, quasi gliene mancasse la forza, o lo ritenesse inutile. E ogni momento scoppiava di nuovo a ridere. Un cupo brontolio da parte dell’Ivanovic, mi fece capire che suo marito non apprezzava eccessivamente questa facilità della moglie di intrattenersi con gente sconosciuta. Egli dovè farle qualche timido rimprovero, ed essa scoppio ancora a ridere. Improvvisamente indicò le rose.
«Wien!», disse. «Souvenir Wien!».
E si alzò appena su col busto, nel dire questo nome, si fece seria, e i suoi occhi mandarono un lampo, che era tutto un meraviglioso riguardo, una commozione non detta, un saluto.
Come quelle rose fossero importanti per Lucia Ivanovic, lo capii solo due giorni dopo, all'alba della domenica in cui dovevo arrivare a Mosca. Ma in questo frattempo erano accadute altre cose per me ugualmente importanti.
Rianimata da questo incontro, la vitalità e la dolcezza mediterranea della donna, la mediocrità umana del marito, quel tanto di apolitico e universale che avevo riscontrato nei miei vicini di letto, trovai il coraggio di uscire dallo scompartimento e cercare, in fondo a due o tre corridoi, il vagone ristorante. Entrando, ebbi l’impressione di capitare in una trattoria di terz'ordine, piemontese o toscana. Modesti tavoli coperti di una tovaglia ancor più  modesta, erano affollati di soldati e ufficiali con la famiglia. Si beveva, si chiacchierava. Una cameriera giovane e bruttina, con le gengive scoperte e uno sguardo pieno di gioia, mi accompagna a un posto libero, ripetendomi in russo i nomi di questa o di quella pietanza, e accrescendo al massimo il mio imbarazzo. Abbasso la testa, impacciata, e in quel punto una voce fresca e gradevole, alia mia sinistra, mi domanda in francese, e poi in italiano, se può essermi utile. Alzo gli occhi: e una ragazza sui ventidue anni, molto graziosa, con due piccoli occhi vivaci, e una fronte bianca e orgogliosa circondata da una nube di riccioli chiari.
«Liza» (e un altro nome), dice presentandosi. «Ho capito la sua nazionalità dall'accento. Ho amici italiani. Ecco mio marito, Sergio. E questo e Pietro, nostro amico. Lei e sola?»
Accennai di sì. Subito dopo ero al loro tavolo.
Questa era la più  bella gente che avessi incontrato finora. Bella, indolente - bellissima! Nulla del controllo e del calore ghiacciato ch'era nella voce e negli occhi dell’interprete. Qui, il fuoco era liquido. La storia non era passata, non era mai stata. C’era una specie di latente follia.
Lei aveva un corpo vigoroso e snodato, un bel collo, una pelle pura. Era vestita con una vaga noncuranza, di roba fine. II suo sguardo era liscio come la seta, ma dietro si scorgevano continui lampi, come in un cielo d’estate. Sergio, il marito, sembrava più  piccolo di lei, era un giovane sui trent'anni, smilzo, di una struttura forse perfetta. Era biondo, e il suo sorriso distaccato, lontano.
Pietro, il loro amico, era uno che sarebbe stato notato in una folla di cento giovani ufficiali ugualmente belli. Più  che un giovane, era una specie di divinità selvatica. La testa, quella di un bambino. Aveva tale una selva di capelli ricciuti e biondi, da dare fastidio. Sotto quei capelli, la fronte era marmo bianco. Sotto quel marmo, gli occhi di un turchino cupo, velato come quello dei neonati, fissavano lontano, immobili e scoraggiati. Un uomo triste fino alle lacrime, e a quella tavola, in quella casuale riunione, questa era una cosa che sorprendeva. Egli non si curava affatto di nascondere la sua tristezza. Forse non se ne accorgeva.
Tra me e Liza comincio un bizzarro colloquio. II suo italiano e il mio francese erano recenti. Ci aiutavamo perciò con dei bigliettini che poi ci passavamo sul tavolo, da un posto all'altro, come carte da gioco. Pietro vi posava appena lo sguardo. Scoprimmo, Liza e io, di avere qualche gusto in comune. Non si parlò affatto di ciò che avrei trovato a Mosca e nella Russia in genere. Liza, coi due ufficiali, veniva da Berlino, dove il marito era di guarnigione e si disponeva, dopo due anni di lontananza, a trascorrere un breve periodo nella nativa Crimea. Fu portato dello champagne, si bevve e, in quel punto, il sole ormai al tramonto, sul limite della pianura, dardeggiò per qualche minuto i suoi lunghi raggi nello scompartimento. Liza, Sergio e Pietro mi parvero, avvolti in quella luce, incandescenti, erano straordinari e, fosse lo champagne o la stanchezza di tante emozioni, sentii i miei occhi inumidirsi. Essi mi guardavano tutti con dolcezza, come se, in quella parte del tavolo, invece di una straniera, vi fosse una persona nota e lungamente ricordata. Era una sensazione che dovevo provare più volte, in Russia: fuori o dentro l’ideologia, non vi sono vere barriere tra un cittadino russo e uno straniero. Si stabiliscono immediatamente, in ogni ambiente, intese tenere e strane, ci si prende la mano nello stesso modo impulsivo e ingenuo, tipico dei ragazzi. Non ha importanza di che idee siete, ma come sentite e pensate. Mi sembrava impossibile, e intanto sentivo che sarebbe stato strano il contrario. A un tratto, però, nessuno di essi rise più, e Liza abbassò un volto tormentato, mentre Pietro volgeva la bella testa lontano. Si fece un bizzarro silenzio.
Non mi fu possibile pagare il conto con i miei scontrini. Promisi a Liza che l’indomani le avrei portato uno scialle veneziano, che avevo in valigia, e poco dopo ritornai nel mio scompartimento.
Qui, Lucia Ivanovic era sempre al medesimo posto. I suoi occhi neri scintillavano nell'oscurità. Mi fece cenno, con un dito davanti alla bocca, di parlare piano, e m’indicò con lo sguardo le cuccette superiori.
Sulla sua testa, Nicola Ivanovic russava: con le mani incrociate sullo stomaco, pallido e rassegnato, la bocca semiaperta da cui usciva quel monotono ronzio, sembrava parlare in sogno con non so chi. Forse vedeva anche qualcuno. Era quietissimo.
Mi sdraiai sul mio letto, in silenzio; e quando credevo che già tutto fosse tranquillo e che fino a domani, non avrei comunicato più con nessuno, qualcosa mi sfiorò e poi mi strinse la mano. Era qualcosa di grassoccio e di soffice: la mano di Lucia Ivanovic. Essa tenne nella sua mano la mia mano, e la dondolò un poco, coi dolci occhi pieni di
felicità, come avrebbe fatto una madre col suo bimbo.


Anna Maria Ortese: Il treno russo, da Praga al confine sovietico

Il treno russo è una pubblicazione Pellicanolibri
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1983, ill.  di Guerricchio


1. da Praga al confine sovietico

Da Praga al confine sovietico ci sono circa diciotto ore di treno, ma non ho modo di controllarlo e neppure posso citare i nomi delle località per cui sono passata, perché durante tutto il mio viaggio non ho mai avuto a disposizione un orologio né una carta geografica. Io non ho mai saputo con esattezza né l’ora né il luogo. Partita da Praga dopo colazione, su un treno abbastanza affollato, l’indomani mattina ero al confine. Il viaggio, a causa del maltempo, fu uno dei più   bizzarri e penosi. Ci furono due soste in aperta campagna, sotto una pioggia torrenziale: l’acqua non veniva giù a fili, ma a secchi, e in una di quelle soste bisognò cambiare treno, perché quello di Praga s’era guastato. Qui, in una terza classe stipata di gente modesta, contadini e soldati, i finestrini erano aperti e le nuvole nere, lacerate da grandi zete di fuoco, sembravano opprimerci, ma nessuna di quelle persone mostrava di accorgersene. I loro volti erano, o sembravano, indifferenti a qualsiasi minaccia di fastidio o disagio, e tanto meno commossi davanti allo spettacolo delle forze naturali; molti, anzi, sporgevano addirittura col viso dal finestrino, come se in quell'orribile campagna brillasse il sole.
Mi si guardava poco forse per educazione, si evitava quasi di guardarmi. Salvo una coppia di giovinetti, che nello scendere dal treno, a una delle tante fermate (il treno era una specie di accelerato), mi si accostò e strinse con particolare forza le mani, nessuno, durante il tragitto, mi rivolse mai la parola. Verso le sei, benché fossimo al 30 giugno, era già notte, e il boato continuo del tuono si mescolava al frastuono sotterraneo del treno. Consumate in qualche stazione delle bevande color rosa, contenute in bicchieri di cartone, tutti, contadini e soldati, cominciarono a dormire. Io non avevo più   con me nessuna provvista, e cominciai a desiderare in maniera spasmodica dell’acqua. Più tardi desiderai del caffè, più   tardi ancora del cognac. Poi desiderai una coperta, perché il freddo era intenso, ma per tutta la sera e la notte e poi la mattinata seguente non ebbi mai né acqua, né caffè, né una coperta, né alcun altro conforto, salvo quello che dirò ora.
Avevo trascorso tutta la notte in un angolo del sedile di legno, circondata da soldati giovani e trasandati che dormivano uno sulle ginocchia dell’altro, sfiniti dal sonno. Intorno al treno c’era stata, tutta notte, una nuvola rossa, che non sapevo a che cosa attribuire: elettricità, riverbero della tempesta, scintille? I finestrini erano rimasti sempre aperti, e quella nuvola era quasi dentro. Mescolata al buio della notte, agli scoppi delle folgori, al freddo e alla luce vacillante di una lampadina, quella specie di nebulosa rossastra sembrava viva. Le mie forze se ne andavano pian piano, fissandola, mentre pensavo vagamente all'Italia e al sole, quando ad un tratto (può darsi che io mi fossi finalmente addormentata e risvegliata) non la vidi più. Era quasi giorno. Neppure i soldati e i contadini c’erano più  . Il treno era freddo, sporco, deserto.
Salirono a una fermata, ma non c’era ombra di stazione, due viaggiatori, e dopo una leggera esitazione vennero a sedersi di fronte a me. Uno era giovane, l’altro più   anziano, e parlavano fitto fitto in una lingua che mi sembrava vicina al francese. Supposi che fossero minatori, senza dubbio operai, ma di che nazionalità lo ignoro. Ed ecco il più giovane, ch'era smilzo e biondo, con una faccia dolcissima, e batteva i denti, posa gli occhi celesti e grandi sul mio sacco di tela abbandonato in un angolo. La cerniera si era rotta. Lui vede questo, gli occhi, che scintillano di continuo, con una luce di fiume, una grazia infantile, m’interrogano: può provarsi a riparare la cerniera? Faccio sì col capo. Prende il sacco, e le sue mani scure e delicate lavorano febbrilmente intorno alla cerniera, fin quando non è aggiustata. Mi riconsegna il sacco sorridendo.
Poco dopo, a un’altra fermata, il giovane e il suo compagno scompaiono. Dico scompaiono perché è ancora il crepuscolo, è l’ora fredda e torbida che precede l’alba, e non posso dire di aver notato chiaramente i loro passi e i volti. So che la cerniera è aggiustata, sono sola, e il treno corre adesso verso la frontiera sovietica. Distinguo qualcuno, in fondo al corridoio, non so se sia un giovane o un vecchio, una donna o un uomo. E un essere piccolo, grigio. Affacciato al finestrino, col viso rivolto alla pianura pallida e asciutta, probabilmente credendosi solo, fischietta monotonamente qualche cosa. Non c’e nessun dubbio, sono le note della Paloma di Yradier. All'alba, questa semplice ombra, con ogni probabilità ombra di operaio, canta: Si a tu ventana molto sommessamente.
II treno si fermò ancora. Questo era il confine. Non posso descrivere esattamente il luogo, perché ero molto turbata, ed esso mi si presento confusamente: un pezzo di campagna nera d’acqua, lucida d’acqua, di binari neri; in alto, un cielo ancora ingombro di nuvole, ma non cosi nere, e già lontane. Un po’ di sole. Un ufficiale sovietico, grasso e accuratamente vestito, guardava sorridendo attraverso il treno.
Misi giù il bagaglio e scesi. L’ufficiale mi si accostò, gli mostrai il lasciapassare avuto a Praga e, in francese, gli domandai dove fosse il treno per Mosca. M’indicò una fila di vagoni, a mezzo chilometro più in la. Io battevo i denti, come il giovane del treno mezz'ora prima, perché questo era un momento che avrebbe commosso persone anche più sane di me, e mi guardavo intorno cercando con lo sguardo chi potesse aiutarmi a portare il bagaglio. Ma «è inutile», mi parve leggere negli occhi sorridenti dell’ufficiale, «non c’è nessuno, bisogna fare da sé». Mi pareva che non ce l’avrei fatta neppure a camminare da sola, tuttavia presi le valigie e mi avviai in quella direzione. Misi dieci minuti buoni a raggiungere questo treno, e intanto il cielo si era nuovamente oscurato e qualche goccia ricominciava a cadere. Feci appena in tempo a salire, che sentii uno scoppio di tuono, e di nuovo pioveva su tutta la campagna.
Tutta notte mi ero confortata aspettando questo momento: sul treno per Mosca avrei trovato divani, tendine, vetri chiusi, gente più socievole e, soprattutto, un buffet dove avrei bevuto qualcosa di caldo. Perciò, vedendo questo scompartimento gelido, chiaro, dalle pareti laccate di celeste, con quattro tavole nude disposte a coppia una sopra l’altra, trovandomi in questa specie di ambulatorio viaggiante, e assolutamente deserto, la mia fiducia subì un duro colpo. Un odore violento, tra di latrina e di medicinale, invadeva tutto il treno, e m’impediva di respirare. Mi sedetti in un angolo e cercai i fiammiferi e le sigarette.
Dopo cinque minuti, il cielo era completamente nero, la pioggia cadeva a rovesci, e le folgori si abbattevano dovunque, in un fragore orrendo, continuo. Mi domandavo se non avevo sbagliato treno, e altre cose. In quel punto, nel rumore sempre più assordante e nella luce sempre più fioca, si fecero vivi dei passi, delle voci. Alcuni uomini della polizia entrarono nello scompartimento. Accennarono un saluto impacciato, circondandomi. Porsi i miei documenti, anch'io impacciata. Mi sentivo male e temevo che essi dessero a questo malessere una diversa interpretazione.
Scorsero quelle carte sorridendo (non capivo come facessero a sorridere in quell'uragano, ma era un sorriso fatto per buona parte di educazione). Alla fine, un giovane che non avevo visto prima, di statura media, vestito in borghese, molto pallido, uscì dal gruppo e mi si sede accanto. Aveva occhiali leggeri, dove gli occhi splendevano di una luce cupa, e un viso dai contorni taglienti, molto serio.
Mi rivolse la parola in inglese e in tedesco, e io non risposi.
«Habla usted espanol?»
Risposi che lo parlavo.
II dialogo che seguì fu pressappoco questo:
«Per quali motivi viene nell'Unione Sovietica?»
«Faccio parte di una delegazione».
«E dov'è questa delegazione?»
«Partiva questa mattina da Praga».
«Una delegazione italiana?»
«Sì».
«E lei, perché non è partita con gli altri?
«Non volevo andare in aereo».
«Per quale motivo?»
«Ho paura».
Come disinteressati, gli altri uomini della polizia si allontanarono. Li vedevo di spalla, nel corridoio. II giovane mi guardò pensieroso attraverso gli occhiali.
« È la prima volta che viene in URSS?»
«Sì».
«Non ha parenti... qualche amico quassù?» «Nessuno».
«Ha con sé pietre preziose?»
«No, non ho pietre preziose».
«Denaro?»
Tolsi dalla borsa alcuni pezzi di carta, tra corone e scellini, e li posai sul tavolino.
«Non ho denaro... salvo questo», dissi nervosamente.
Un fulmine scoppiò quasi sul treno,
«Nessun rublo?»
«Ho paura», dissi.
«E di che ha paura?».
Disse questo sottovoce, ma fermo, senza togliermi gli occhi dal viso.
«Questi scoppi», dissi debolmente. «Non sopporto».
Vidi il suo braccio allungarsi verso la tendina, e tirarla. La sua voce, quando parlò, era mutata. Non più calda, ma neppure ostile. Direi intelligente.
«Anche mia madre», disse «teme i fulmini. Posso capire».
Non parlò, per qualche momento. Mi porse una sigaretta e rimase in silenzio accanto a me, aspettando che mi calmassi, ora guardando la tendina, ora, pensosamente, le pareti metalliche dello scompartimento. Egli sembrava triste, come, da quel momento, mi sembrarono tristi tutti i migliori uomini sovietici. Sembrava chiuso in un suo pensiero dal quale era impossibile uscire.
«La lluvia esta calmando», disse a un tratto.
Non tuonava più tanto. Riprendemmo il dialogo, ma per poco. Mi porse un modulo redatto in varie lingue, tra cui lo spagnolo, e mi pregò di riempirlo. Scrivevo e, intanto, egli mi guardava: non sapevo se quello sguardo fosse solo burocratico, o anche umano. Certo, passavano là dentro parole di cui egli non era neppure cosciente.

Il Manifesto 17 novembre 1991
Alla fine:
«Tornerò più tardi e l’accompagnerò al ristorante», mi disse alzandosi. «Dovrà anche cambiare treno. Questo non è il suo. II suo è migliore».
«Grazie. E starà molto prima di tornare?»
«Sì. Ma fra due ore sarò di nuovo qui».
Non so ancora in che modo riuscii a passare quelle due ore. Ogni tanto mi sembrava di crollare, e poi risalivo nuovamente a galla. Per distrarmi cercavo di prendere delle posizioni diverse: mi sdraiavo, mi sedevo, mi rannicchiavo, ma in ciascuna posizione il cuore mi dava ugualmente fastidio e il freddo mi tormentava. Alla fine, tremavo senza sosta, fitto, e battevo i denti. Quando l’interprete riapparve non lo vidi subito.
«Usted abbia la gentilezza di seguirmi», mi disse.
Indossava una mantellina nera, d’incerata.
«Usted non ha impermeabile?» Era preoccupato.
«Non m’importa della pioggia», dissi.
Del resto, piovigginava. Percorremmo tre o quattrocento metri nella campagna deserta, ma ormai pacificata, sotto il cielo che si era schiarito. In un edificio basso, che al mattino avevo appena intravisto, c’era il ristorante. Ricordo un certo traffico di persone, che peraltro non mi guardavano affatto. L’interno dell’edificio era messo come un’abitazione, con vecchi ritratti alle pareti, fotografie incorniciate alla buona. Si sentiva un odore di verdure bollite. Nelle fotografie c’erano Lenin, Stalin, un altro viso barbuto, con occhiali. Entrammo in una saletta riservata, l’interprete mi fece sedere a un tavolino rotondo innanzi alla finestra, e sedette a sua volta di fronte a me, scusandosi se non mi faceva compagnia a tavola. Comparve una bionda alta, dall'aria molto piacevole e buona, che mi servì con premura e gentilezza. Ogni tanto, alle spalle dell’impiegato, mi gettava un fuggevole sorriso, da donna. Ebbi un bicchiere di vino alto dieci centimetri, di un colore giallo fumoso: bastò un sorso a darmi un senso di fuoco, di luce. Feci mettere il resto in una boccetta per servirmene durante il viaggio.
Ormai stavo già meglio. Mi giunsero dall'esterno, attraverso la finestra, le note di alcune canzoni patriottiche trasmesse dalla radio. II senso era di violenza e bellezza, e nel fondo un ritornello, come un pensiero ossesso che non aveva a che fare con quella gioia, sembrava esprimere la desolazione di una solitudine e uno spazio difficili da superare. Era come qualcuno che invocasse il sole dal fondo dell’inverno, o uno che piangesse in un giorno di festa. Guardai l’interprete: sembrava assente.
Poco dopo, ero di nuovo davanti al treno. Avevo avuto assegnato un lettino nello scompartimento già occupato dai coniugi Lucia e Nicola Ivanovic - il cognome mi parve questo - che viaggiavano in compagnia di un loro cugino, ma queste notizie le seppi dopo. II mio bagaglio era già sistemato. Dal corridoio, guardavo la campagna rasa e triste, e sul marciapiede, immobile, il giovane con gli occhiali.
«La ringrazio molto... davvero... Lei è stato molto gentile», dissi.
Avrei voluto dire altre cose, queste erano abbastanza goffe, ma non ci riuscivo. Avrei voluto dirgli che mi aveva colpito soprattutto la sua educazione.
Ebbe un breve sorriso.
«No hay de que».
II treno si muoveva. Egli rimase a fissarlo, sempre con quel debole sorriso. Poi improvvisamente volse le spalle e andò via.

Quel momento che l’interprete scomparve ai miei occhi, fu terribile. Dietro i suoi occhiali, sotto i modi distanti, avevo sentito un uomo della nostra Europa; avrebbe potuto essere un belga o un francese o anche un tedesco del Sud; persona civile, forse non estranea agli studi. Mi aveva nominato sua madre. Ora, con me, non c’era più nessuno, o mi pareva. Alzando gli occhi scorsi per la prima volta, e nel cielo illuminato da fasci di sole, i corvi. La porta del mio scompartimento era lì vicino. Entrai in fretta, spostai il bagaglio, e senza nemmeno gettare uno sguardo alla famiglia Ivanovic, mi gettai sul letto, mi tirai il cappotto fin sulle orecchie e cercai di dormire.


Tu sei, testo di beppe costa, musica di Roberto Procaccini

tu sei
>
tu sei
il tempo che m'è dato
e quello c'ho trascorso
la vita che comincia
e quella che finisce

tu sei
i giorni ancora cari
e quelli insopportabili
l'incontro mai avvenuto
e quello improvvisato
le liti che mi squarciano
l'arte che mi incanta
il gioco del destino
la medicina che guarisce
il premio alle illusioni
l'ostacolo alla fine
il rifiuto d'ogni guerra
risorsa a ogni morte

tu sei
guardarti e non averti
e ancora
principio e fine
d'ogni lacrima e sorriso

tu
natura vincente
d'ogni forza dominante
e
ancora...
ancora

ContrAppunti perVersi: Francesco Paolo Memmo

ContrAppunti perVersi è una pubblicazione Pellicanolibri, 1990
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30a parte

L'obliquo infingimento delle cose

Come qui dove infine si rivela
-  eternamente uguale - il paesaggio
-  e quale incantamento e quale
limpidezza dei ricordi -
che cosa in fondo ci sarebbe di meglio
-  e di più, dico io,

che cosa come qui, se...

Se non fosse che sempre diverso
e sempre inafferrabile, sempre ferocemente
ambiguo è (un magma incandescente nei precordi)
l’obliquo infingimento delle cose
la loro - dico - feroce resistenza,
il loro muto guardarmi.



Conversazione notturna

Nella ricerca delle cause e degli effetti
si anima il nostro conversare - se sia
lecito o no...
    Urgono, a scoppio ritardato,
le domande.
    Qualcuno tace, è vero,
meditando risposte. Il fumo toglie
il respiro, obnubila il cervello,
aggiunge afa ad afa. E nell'aria inquinata
si aggrava la distanza che
separa accusatori e accusati.
   A notte alta,

s'invertono i ruoli. In fondo alla sala
cresce il nervosismo del boia.

Altri anni

Altri anni e non c'erano ragioni migliori
e cosi stavano le cose ad uno ad uno
le ricordo tutte le aduno nel ricordo
ed era tutto vero e la memoria
fa di questi scherzi ed erano come sospesi
gli eventi ma ben profilati ma precisi
e non li ignoravo le accarezzavo e
dolcemente essi mi prendevano con sé
e non c'erano altre e migliori ragioni
per non essere così e io tutte le indovinavo
ne lastricavo la strada e ne facevo
merce da rivendere poi a caro prezzo
e un'eredità su cui contare e le tenevo
a mente e mentalmente me le ripetevo
e questo era in sostanza ciò che facevo
mascherato da apache o da cow boy
e non importava la parte
che puntualmente mi accingevo a recitare.

Richiesta d'aiuto

A denari a bastoni a spade a coppe
ovvero a picche a quadri a fiori a cuori
a cuori a campanelli a ghiande a foglie
butta un carico un liscio una scartina

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100 autori raccolti in volume da me curato, con la prefazione di Luigi Reina dell'Università di Salerno. E ha dato vita a una rassegna in via del Boschetto. 
Inizio a pubblicare alcune pagine dell'Antologia, partendo dalla grande autrice e amica Amelia Rosselli, (e via via tutti gli altri autori), con lei ho avuto diverse occasioni in Sicilia e qualcuna anche a Roma, di condividere la solitudine della poesia.
Tentammo, dopo esserci riusciti per Anna Maria Ortese, di fare applicare la Legge Bacchelli, ma non fece in tempo. Ignara che ne avrebbe goduto i vantaggi, si suicidò l'11 febbraio del 1996

ContrAppunti perVersi: Enzo Grasso

ContrAppunti perVersi è una pubblicazione Pellicanolibri, 1990
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29a parte


da "La Stagione della violenza", è un libro del 1987, narra un fatto realmente accaduto a Castiglione di Sicilia, cittadina dove Enzo Grasso fu sindaco ed organizzò per diversi anni il Premio Akesineide.
Ha scritto e pubblicato diversi libri. Tre con la nostra editrice. Il testo è ancora disponibile, ordinandolo sul sito dell'editore.

      
 Accade che in una città si consumi una violenza, un sacrificio, un martirio, e che una legge, o un decreto, o una norma sonnecchiante fra le pieghe di una Gazzetta cancellino il tragico evento.
    Uomini come me, allora, incapaci di leggere gli inesplicabili disegni d'altri uomini candidati alla storia, si aspettano che le lave si ritirino nelle misteriose viscere dell'Etna e restituiscano alla campagna i colori dei boschi e delle vigne, gli invalidi per fatto sopravvenuto recuperino la loro originale natura di uomini sani, i morti siano restituiti vivi alle loro famiglie.
       Alcuni dei fatti che ho voluto narrare con grande libertà in questo romanzo, sono realmente accaduti.
Edoardo Pantano ha una lapide commemorativa su fronte del Municipio di Castiglione di Sicilia a ragion d'indennizzi mai concessi ai contadini danneggia dalla lava ed una lapide meno vistosa, umile e dimenticata, hanno pure sullo stesso frontone sedici cittadini trucidati dai nazisti durante una bestiale orgia di sangue.              
       Ricordi fatti di marmo, freddi e lontani dal memoria di eredi distratti.
      Qualche tempo fa chiesi, nella qualità di sindaco, riconoscimento ufficiale del martirio della mia Città.            
    Vollero un mare di notizie e alla fine mi risposero c la richiesta avrebbe dovuto farla il sindaco dell'epoca rivolgendo apposita istanza ad uno dei Palazzi rom entro una certa data.
     Non avendolo fatto nei termini prescritti, i morti ammazzati durante la giornata del 12 agosto 1943 non sono morti.

Forse non esiste neppure questo libro.


100 autori raccolti in volume da me curato, con la prefazione di Luigi Reina dell'Università di Salerno. E ha dato vita a una rassegna in via del Boschetto. 
Inizio a pubblicare alcune pagine dell'Antologia, partendo dalla grande autrice e amica Amelia Rosselli, (e via via tutti gli altri autori), con lei ho avuto diverse occasioni in Sicilia e qualcuna anche a Roma, di condividere la solitudine della poesia.
Tentammo, dopo esserci riusciti per Anna Maria Ortese, di fare applicare la Legge Bacchelli, ma non fece in tempo. Ignara che ne avrebbe goduto i vantaggi, si suicidò l'11 febbraio del 1996

Come campa un poeta, di Iago

Una frase pronunciata tempo fa da Gregory Corso “per un poeta è impossibile praticare un lavoro normale, i poeti non dovrebbero lavorare, non riescono a mantenersi un’occupazione stabile”.
Bene condivido.
Sono stato assunto e licenziato una miriade di volte. Quelle parole spesso rimbalzano tra i miei due neuroni; un bel giorno indosso il costume da mare, esco in giardino, assumo la posizione vitruviana e aspetto. C’è un sole forte e chiaro, aspetto.
Passano i minuti, aspetto. Un’ora abbondante, mi cola il naso; eppure non sono raffreddato. Verifico con la mano, il setto si sta squagliando (per fortuna che non è un otto), il progetto primo caso di sintesi clorofilliana umana decade, rientro di corsa in casa.
Rifletto.
Ho fame, la scossa eliaca stuzzica lo stomaco. Apro il frigo, diavolo ancora luce. Sembra di essere sotto una lampada abbronzante, l’elettrodomestico è vuoto; bello ma vuoto. Cambio umore. Il piano B prevede la partecipazione a concorsi con montepremi in denaro. I due neuroni scintillano: inizio la ricerca.
Mi sembra appropriato verificare i vincitori delle passate edizioni: Maffia, Rondoni, Spaziani (un amen per lei), Damiani e compagnia. Hum… non discuto il valore, ma che se ne fanno di 500 o 1000 euro.
Rifletto però ho fame.
Mai deprimersi.
Iago in un liceo
Riesco in giardino, strappo della cicoria la ripasso (e chi se l’è mai scordata). Accendo la sega elettrica per tagliare il pane, è talmente avanzato che bussa alla porta di casa. Mazzetta e scalpello per togliere le croste più dure. Finisco il pranzo.
Una chiamata al telefono.
“Pronto (e mica tanto)”
“Ciao caro ti volevo invitare ad un evento letterario che si svolgerà a Rieti, tra due settimane, si farà di notte, però… sai come vanno queste cose… be’, insomma i fondi non ci sono… la crisi.”
I due neuroni rivolgono il pollice verso il basso, rifiuto. Mai demordere.
Vado in paese, parlo con l’assessore alla (s)cultura. Chiedo l’autorizzazione per svolgere un piccolo evento di poesia, lui sembra contento “ bene, bravo; però… sai come vanno queste cose… be’ insomma i fondi non ci sono… la crisi.”
“Hum, ma guarda mi sa che è parente di quello che ha chiamato ieri.”, dice un neurone all’altro, poi il colpo di cena… pardon ho dimenticato la s, “ci sarebbe una quota da versare per occupazione suolo pubblico, pari a 250 euro”.
Mi teletrasporto a casa, l’assessore ancora mi sta cercando e ricordo le parole di mio nonno, grande idolo dei miei sogni che con dolcezza infinita mi disse “nepò c’hai du’possibilità: fatte prete o delinquente.”
Io risposi “a nonno e no, me posso buttà n’politica”
“appunto”, disse lui, “sempre de’ delinquenti parlamo”.

Ancora le frasi del ribelle beat riaffiorano, io, poeta incicoriato spesso me la canto: caro Gregorio io ce provio ma se continuo così ce muorio”

Iago

Premio Letterario Internazionale L'Aquila


Nessun contributo da parte degli autori
tre sezioni
scadenza 15 settembre 2014



Poesia Infanzia, Çocukluk yılları, Childhood, Fëmijëria

Infanzia, poesia di Beppe Costa
Çocukluk yılları


Bilmiyorum
Bir deniz var mı
Zamanı hissettiğimce ses veren
Romantik olmayan rüzgarın haykırışında
Onu görüyorum
Kirlenmiş deniz artık
sakin değil kaldı ki bir aşktan dolayı dertliyim
artık bir şey yapmayı düşünmüyorum
odaları dolaşıyorum hatıralar olmaksızın
beyaz duvarlar bir şey ifade etmiyor
hafızam olmadan
vücudumu tek başına nerede rehin bıraktım
bir sandalyede, bir yatakta yada bir elbise dolabında mı


müzik kitaplarının hayalleri yitip gitmiş
çağın renkleri yitip gitmiş

Çöl

Çöl turistler için değil
Kendi içinde bulanık bir çöl
Tozdan ve dumandan;
Kendi içimde
İzleri ve dönüşleri olmaksızın
Kaçışları olmaksızın
Bilmiyorum nerede durmalıyım


Kendimi miskin kılarsam eğer çarpık
Duvara ve çatıya dönük
Ve ters yüz olmuş;
Artık romantik olmayan
Fırtınayı çağıran denizi
Duymuyorum
Rüzgarın haykırışını duymuyorum
Ne de Mozart’ın Ay’ı
Öldürüyor düşselliği.


Kendimi gelecek güne dahil ediyorum
Geriye dönmemi ısrarla isteyen


Duyuyor musun
Bir deniz var yaklaşan
Şahlanan dalgalar
Haykıran rüzgarla
Taşıyorum benimle birazcık Mozart'ı
Dört ay üç ev
Kışı haykıran deniz artık yok
Çalan Mozart’ da artık yok
Ne de çarpan rüzgar,
Barın ön kapılarında
Hantal ceketleriyle sakallı insanlar
Kamyonların gürültüleri,
Artık Mozart yaşamıyor
Ne de çağıran deniz
Ne de sen bana bakan
Kendini engellemedin
Deniz çağırdığında
Rüzgar kara bulutlara haykırdığında
Yenik düşürdüğünde
Beni sürükleyerek uzaklara

Yine de
Denizin haykırışını seviyorum.

tçeviri Erkut Tokma


Infanzia
Non so
c’è il mare che suona
come un tempo lo sento
lo vedo nell'urlo
del vento non più romantico
il mare inquinato non più
sereno o d’amore sconvolto io
non più pensando qualcosa da fare
giro per stanze senza ricordi
pareti bianche senza nulla d’appendere
senza memorie
dove solo deposito il corpo
una sedia un letto e un armadio

Scomparsi i sogni di libri di musica
scomparsi i colori d’età

Deserto

Deserto non per turisti
deserto polveroso dentro
di polvere e fumo
all’interno di me
senza tracce o ritorni
senza abbandoni
non so dove stare

se mettermi curvo supino
girato al muro al tetto
e capovolto
non sento il mare che suona
in tempesta
non sento l’urlo del vento
non più romantico
neppure la luna per Mozart
assassino sognante

Mi racchiudo per il giorno appresso
che si ostina a tornare

Senti
c’è il mare che arriva
onde che sbattono
col vento che urla
porto con me pochi grammi di Mozart
Quattro mesi tre case
Non c’è più il mare che urla d’inverno
né Mozart che suona
o il vento che sbatte
le porte di fronte col bar
con i giacconi uomini orsi
rumore di autocarri
Non c’è Mozart che vive
né il mare che suona
né tu che mi guardi
non hai impedito
che il mare suonasse
che il vento di urla di nere nubi
vincesse
portandomi via

Eppure
adoro il mare che urla


Childhood

I don’t know
the sea sound
I feel it like one upon a time
I see it in the not anymore romantic
howling of the wind
the polluted sea which is no more quiet
or I am upset by love
not anymore thinking about doing something
I wander around rooms without memories
white walls with nothing to hang
no memories
where I store only the body

Casa della Poesia, 2010
ISBN 9788886203555
a chair, a bed, and a wardrobe

The dreams of music, books disappeared
the colours of age disappeared

Desert

Desert, not for tourists
desert dusty inside,
of dust and smoke
inside me
without traces or returns
no abandonments
I don’t know where to stay

if I put myself crooked and supine
turned towards the wall against the roof
and upside-down
I do not hear the sea ringing
in the storm
I do not hear the wind’s howl
It’s not romantic anymore
not even the moon for Mozart
dreaming murderer

I conceal myself for the following day,
which obstinately returns

Look
the sea is coming
with its waves slamming
and the wind howling
I carry with me a few grams of Mozart
Four months, three houses
The sea no longer screams in the winter
neither Mozart plays
nor the wind slams
the doors in the front of the coffee shop
with their coats bear-men
noise of trucks
There's no Mozart living
nor the sea sound
you don’t even look at me
you did not prevent
the sea from playing,
or the screaming wind of black clouds
from
taking me away

Despite this,
I love the howling sea


translation: Karen Costa


Fëmijëria

Nuk di
është deti ai që luan
si dikur e ndjej
e shoh tek ulërima
tek era jo më romantike
deti i ndotur jo më
i qetë o prej dashurisë i tronditur unë
jo që nuk mendoj më të bëj ndonjë gjë
vërtitem në dhoma pa kujtime
mure të bardhë ku s’var dot asgjë
pa kujtime
ku vetëm trupin mund të lë
një karrige një shtrat e një dollap

Zhduken ëndrrat e librave të muzikës
zhduken ngjyrat e moshës

Shkretëtirë

Shkretëtirë jo për turistë
shkretëtirë e plurosur brenda
me pluhur e tym
në thellësinë time
pa gjurmë e rikthime
pa braktisje
nuk di ku të rri

të qëndroj përmbys me shpinë
i kthyer nga muri nga çatija
e kokëposhtë
nuk e ndjej detin që luan melodi
në stuhi
nuk ndjej ulërimën e erës
s’jam më romantik
as edhe hëna për Mozart-in
vrasës ëndrrimtar

Mbyllem për ditën përbri
që nuk don të vi

E ndjen
është deti që afrohet
dallgë që përplasen
me erën që ulërin
mbaj me vete pak gram Mozart-i
Katër muaj tre shtëpi
Nuk është më deti me ulërimë dimri
as Mozarti që luan
apo era që përplas
dyert përballë më barin
me xhaketa burra arinj
zhurmë kamionash
Nuk ka Mozart që jeton
as det që luan melodi
as ti që më shikon
nuk e ke ndalur
detin në krijimtari
as erën ulëritëse nga re që nxijnë
të fitonte
merrmë me vete

E megjithatë
e admiroj detin që ulërin.

përkthim: Valbona Jakova


lettura di Arnoldo Foà





sceglie Olimbi Velaj, tradotto da Valbona Jakova

L'ultimo volume di Olimbj Velaj
Abbiamo incontrato Olimbi Velaj al Nisan Festival di Maghar (Israele) nell'edizione del 2013. Straordinari giorni quando si incontrano le voci poetiche provenienti da varie nazioni.
Oggi Israele vive uno dei tanti momenti drammatici (motivo per cui Naim Araidi ha 'inventato il Festival, nel 1990, stagione di Intifada) affinché le lingue di Israele si incontrassero con le altre lingue e i popoli, attraverso la poesia e potessero parlare di pace. Così complessa e difficile impedita da pochi voluta dalla gran parte dei popoli.
Oggi vogliamo ricordare che anche l'Albania, pochi anni fa ha vissuto tempi di sofferenza.  E l'Italia che ne aveva fatta terra di conquista è diventata, in qualche modo, il paese 'ospitale' e desiderato.
Così oggi, grazie alle traduzioni dell'amica albanese Valbona Jakova, che da vent'anni vive in Italia, possiamo far conoscere alcune liriche tradotte in italiano. Alla traduzione ha collaborato beppe costa



Përtej udhëve dhe viseve
përtej ditëlindjeve dhe gjuhëve
koha mbërriti
përmes rreshtash të shkruar
dhe filxhanësh anonimë
në kafenetë e boshatisura
përfund iluzionit blu të qiellit
mbi shqisa u dyndën përshtypjet
duke ringjallur dëshira të thella...
të tjerë njerëz janë me mua
për të kuptuar të tjera gjëra
që nuk më ndodhën me ty...
vezët e trishta të kohës çahen
mbi të tashmen time
ndërsa në të njëjtët filxhanë
në qetësinë e netëve
buzë të tjera mbështeten.


Oltre

Oltre le strade e i luoghi
oltre ai compleanni e le lingue
il tempo è giunto
attraverso le righe scritte
e tazzine di caffè anonime
nei bar vuoti
nella profondità dell’illusione blu del cielo
sulle membra si sono estese le impressioni
facendo rinascere desideri profondi
persone diverse sono con me
per capire altre cose
accadute con te...
le uova tristi del tempo si spaccano
sul mio presente
mentre nelle stesse tazze
nel silenzio delle notti
altre labbra si appoggiano.

Kujtesë

Përtej mungesave dhe letrave
ku shkruaj e prish fjalë
ia mbërrin shiu
me udhë që priren në mjegull
asgjë tjetër s’është e qartë
po e di, përtej gjuhës
në dritaret e heshtura të vetmisë sate
jam
përtej ujit dhe hamendjes
në orët e thata të zgjimit
afër fj alive të mia
dynden imazhe, për pasigurinë
midis lajmeve dhe gazetave
që vjetërohen në mbrëmje
ndërsa shirat rrjedhin
përbri xhamash të ftohtë
në kohën që zmadhohet
përgjatë segmentit tonë ndarës.


Memoria

Oltre le assenze e le lettere
dove scrivo e cancello parole
ecco arriva la pioggia
con vie che s’inoltrano nella nebbia
nientr'altro è chiaro
ma so,oltre la lingua
le finestre silenziose della tua solitudine
sono
oltre l’acqua e l’immaginazione
nelle ore deserte del risveglio
accanto le mie frasi
si scatenano visioni, incertezza
fra notizie e i giornali
che la sera invecchiano
mentre la pioggia sbatte
forte su vetri freddi
durante il tempo che aumenta
la distanza fra le nostre strade


Asnjëherë s’ka Kohë

Asnjëherë s’ka kohë
për domosdoshmërinë e gjykimit
ose për gjykimin e domosdoshëm
përderisa pauzat mbarojnë përpara lodhjeve
dhe na hyn në punë stërmundimi
s’ka kohë për t’u parë
nën dritën që rrëshqet
si mungesë e përsëritur
s’kemi për ta ndier
shijen vjollcë të përshtypjes
thahet jashtë
nën abstenim herbariumesh
ndërsa përdorim nga pak kujtesë
pas xhami, pas avulli, pas fryme...
ku zbehen duart si rryma
të sjella nga vizatime me ujë
me mospërfillje shpejtësish
kemi për të ikur
duke qenë sidomos këtu
pa kristaie
vetëm me tinguj sferikë
që kërcejnë në shembëllim
një rreth frike pavetore


Mai c’è tempo

Mai c’è tempo
per la necessaria ragione
o la ragione necessaria
ché le pause finiscono prima delle stanchezze
è utile l’enorme fatica
non esiste tempo per vederci
sotto la luce che scivola
come assenza ripetitiva
non possiamo sentire
il gusto viola dell’impressione
si asciuga all'aperto
sotto l’assenza degli erbari
mentre usiamo poca memoria
dietro vetri,vapori,respiri...
dove mani impallidiscono come correnti
nate dai disegni dell’acqua
con rapida indifferenza
un giorno dobbiamo andare
specialmente essendo qui
senza luci
solo con suoni sferici
che danzano in sembianza
un cerchio di paura impersonale


Mbetja

Kur natyrat e krijuara
filluan të rridhnin
si lëngje sythash
të mërguar në vdekje
edhe unë e kam humbur një botë
po aq krijuar dhe reale
si një legjion sysh
ngulen pa drojë mbi admirim
ku ishte deti, deti i vërtetë
i lindi breg çuditë e verës
pa mbresa të atypëratyshme
dhe vetëm koha ia shpëlau mjegullën
dhembjes sime
shumës së gjëmave detare
sa e largët dhe atentat përshtypja brenda meje
aq sa vetë do ngrihem
ta tres kufomën time harruar
askush s’e re
as rasti i përgjithshëm
që është rezultante e ngjarjeve...
kështu natyrat autentike denatyrohen
stinësh e humnerash vetvete
mbushur me mollë të hidhura
mundimin e zbërthimit të mallit


Quel che resta 

Quando le creature naturali
iniziarono a scorrere
come succo di boccioli
relegato alla morte
anch'io ho perso un mondo
creata nello stesso reale modo
come una legione d’occhi
che senza timidezza si infilzano sull'ammirazione
là dove era il mare, il vero mare
sulle cui rive nascono le meraviglie d’estate
senza impressioni momentanee
solo il tempo ha pulito la nebbia
il mio dolore
i tanti naufragi marini
lontana l’impressione dentro me, mi aggredisce
a tal punto da costringermi ad alzarmi
per ridurre in polvere il mio dimenticato cadavere
che nessuno nota più
neppure l’occasione madre
che altro non è che il risultato degli eventi…
così le vere nature si denaturalizzano
dalle stagioni e precipizi
riempiti con mele amare
nella faticosa ricerca d’una nostalgia.


Qenia Pasdite

Koha mbaroi mbi akrepa
bashkë me vëmendjen time
si një lëngatë
e verdhë, midis ajrit
u fundos pasditja
ndërsa avionët ngriheshin
në të njëjtin qiell kapitullimi
tani pa ngutje kthehem pas
në qelinë e ankthit tim
ku nuk ekziston lartësia
as frika e të vjellave
dënimi është kryer
s’ka më ditë për të numëruar
mbi kangjella dhe mure nata mbërrin
si fokë e përhimtë
drita çliron
vetëm kohën dyfishe me trupa
ku ti mbete një hutim
midis shtendosjes zbardhin
kockat e një bezdie me femra...
s’ka më vend për pendesë
në këto orë qielli
gjendjet mbetën pas, të pashfletuara
si dorëshkrimet persiane në arkivin e shtetit
kalendarët nuk përputhen
atje është hixhri 1421
dhe gjumi im mbaron
në një ëndërr mesnate
në anën tënde ka mbetur dita


L’essere Pomeridiano

Il tempo è finito sulle lancette
insieme alla mia attenzione
come un languore
giallo,in mezzo all'aria
è sprofondato il pomeriggio
mentre gli aerei si alzavano
nello stesso cielo sconfitto
adesso senza fretta ritorno di nuovo
nella cella della mia angoscia
dove non esiste l’altezza
nella paura del vomito
la condanna è già pronta
non ci sono più giorni da contare
su cancelli e muri è giunta la notte
come foca grigia
la luce libera
solo il tempo duplice sui corpi
dove tu sei rimasto attonito
fino a vedere emergere
solo resti di ossa femminili
non c'è più posto per pentimenti
in quest’ora il cielo
gli eventi rimangono dietro,non sfogliate
come i manoscritti persiani negli archivi statali
i calendari non combaciano
lì è il numero 1421
e il mio sonno finisce
in un sogno di mezzanotte
dalla tua parte è rimasto il giorno.

 Ukë Buçpapaj Ukë Buçpapaj Erjon Tusha, Olimbi Velaj presso TVSH.

Olimbi Velaj has graduated from the Faculty of Filology at the University of Tirana in 1996. In 1997-1998 postgraduate studies “Ballads in Balkans” - comparative research at University of Sofia,Bulgaria, “Sv. Kliment Ohridski”, Departament of Folklore and Anthropology.
Since 1993 she has been working as a journalist for several newspapers and radios. Her first book of poetry “The moments die under clock hads ” was published in 1998. She is currently working as an editor of “Ballkan” newspaper.

Olimbi Velaj si è laureata in filologia all’università di Tirana nel 1996. Nel 1997-1998 ha conseguito dei titoli di studio post laurea “Ballate nei Balcani” ricerca comparativa all’università di Sofia, Bulgaria, “Sv. Kliment Ohridski” dipartimento di folklore e antropologia.
Dal 1993 lavora come giornalista per molti giornali e radio. Il suo primo libro di poesia “I momenti muoiono fra le mani dell’orologio” è stato pubblicato nel 1998. Sta attualmente lavorando come editor per il giornale “Ballkan”.

Valbona Jakova è nata a Tirana il 23.10.1953. Nel 1991 arriva in Italia insieme alla sua famiglia, imbarcata in una delle navi attraccate al porto di Durazzo. Attualmente vive a Ghedi insieme alla sua famiglia.
1995 Pubblica la sua prima raccolta di poesie in albanese Enigmat e Pasmesnatës (Enigmi di dopomezzanotte); segue nel 1998 Kujt i takon kjo buzëqeshie e brishtë?
1999 Escono le due traduzioni di Ungaretti Raccolta di 37 poesie ed. Mondadori e di Neruda Venti poesie d’amore e una canzone disperata, edizioni Accademia,1973. 
2000 Presenta a Tirana la traduzione del libro di Padre Livio Fanzaga Perché credo a Medjugorje?, Sugarco Edizioni, 1998 (best-seller dell’anno 98).
2003 E’ vincitrice del primo premio per la sezione poesia al concorso “Immicreando 2003” 
2007 Pubblica in lingua albanese la raccolta di fiabe per ragazzi Gershetet e Eres “Le forbici del vento” della Weso Editrice (Tirana). Le stesse fiabe tradotte in albanese verranno pubblicate a settembre 2014.
2008 Vince il primo premio al concorso nazionale di “Poesie immigrate” con la poesia Lui tornerà. 2009 riceve un riconoscimento dall’Associazione Vatra Arbëreshë per il grande contributo dato alla letteratura albanese in Italia.
2013 Collana "Poetre": nje vibrim dallgezues flatrash (Thauma edizioni).