Jesus Lopez Pacheco, Delitti contro la speranza - 1.

Ho recuperato, dopo anni, uno dei miei libri preferiti che avevo regalato, sperando di ricomprarlo ma, ahimé la ricerca fu inutile per anni. Adesso l'ho riletto dopo quasi 50 anni anni e lo trovo, sin dal titolo, adatto ai nostri tempi dell'orrore. Quando non più e non solo la Spagna viene attraversato l'intero mondo dalla corsa al denaro e alla disfatta di qualsiasi umano che sia differente, diverso per colore, tradizione, religione, perfino sguardo. 
Ciò mi spinge a riproporlo, magari un po' alla volta, partendo dall'attenta e lunghissima prefazione al libro di uno specialista del periodo Ignazio Delogu, almeno la parte introduttiva, lasciando spazio ad alcune delle poesie.
Dell'autore non esiste più alcuna traduzione italiana e neanche è presente su Wikipedia in italiano, per le notizie vi rimando al link cliccando QUI, in lingua spagnola (c'è anche in inglese e tedesco) ma i 'nostri' wikipediani seguono università e televisione e figurarsi...
b.c.

Estratto alla Prefazione:
Sono trascorsi ormai otto anni dalla pubblicazione in Italia di Pongo la mano sobre Espana, di Jesus Lopez Pacheco, e sette dalla pubblicazione dell’Antologia di José Maria Castellet, Spagna, poesia oggi, libri, entrambi, che oltre a essere accolti con insolito favore, suscitarono dibattiti, polemiche, discussioni.    Si potrebbe anzi dire che la loro pubblicazione abbia segnato, fra di noi, il punto più alto di un rinnovato interesse per la poesia e, più in generale, per la cultura spagnola del dopoguerra.

Alle nostre orecchie abituate a sentir parlare di generazione sempre in riferimento o a quella del ’98 o all’altra, più prossima e incomparabilmente più nota, — non fosse che per la fama di un Lorca e anche di un Alberti — tornava gradito e persuasivo sentire echeggiare nuovamente la parola, non meno dell’immagine che essa suscitava, di una rinnovata e solidale compattezza umana. Resa più omogenea, inoltre, questa volta, da una comunanza di ideali, di aspirazioni, di impegno politico e non soltanto poetico.
Era forse naturale, pertanto, che l’attenzione si rivolgesse piuttosto agli elementi comuni a tutti quei giovani poeti, e che differenze e contrasti, pur notevoli, rimanessero in ombra.
Può anche darsi che proprio ciò sia all’origine di una sopravvalutazione degli elementi ideologici e dello spostarsi del discorso, divenuto necessariamente generico, dal suo tema concreto e specifico, alla polemica attorno alle definizioni, polemiche anch’esse, naturalmente.
L’uso volutamente, forse, non troppo rigoroso e certamente provocatorio, di uno schema interpretativo della storia della poesia spagnola dell’ultimo cinquantennio, da parte del Castellet, il cui scopo era di dimostrare l’inservibilità e la indisponibilità delle esperienze del passato ai fini della fondazione di una poesia che si ribellasse ad ogni soggezione all’estetismo — di cui si individuava la matrice nel simbolismo e gli effetti nell’uso irresponsabile della metafora, approdo ultimo e definitivo dei poeti della generazione del ’27 — in nome dell’impegno totale e del «realismo» che doveva inverarlo, non poteva non suscitare, anche da noi, una difesa polemica e oltranzista del simbolismo, appunto, e dei suoi prodotti. Ma soprattutto portò, per un verso, a stabilire una relazione meccanica tra situazione e poesia, per un altro, incoraggiò e favorì la confusione tra i fatti singoli, sia pure numerosi, e la realtà in tutta la sua complessità dialettica, che i fatti in quanto tali non potevano esaurire.
Era naturale, pertanto, non solo che i nuovi poeti apparissero come un insieme multiforme, ma profondamente omogeneo — e questa fu anche la momentanea illusione di molti di loro — ma anche come il prodotto immediato di una situazione, di un complesso di circostanze.
Ora, se c’era un poeta che poteva confermare questa relazione, o dipendenza, meglio, della poesia dalle circostanze, era proprio J. Lopez Pacheco. E non tanto per i dati della sua biografia, non dissimile da quella di molti altri suoi compagni — infanzia nella guerra civile e nell’immediato dopoguerra, università, esperienze poetiche più o meno intimiste, scoperta di un’altra Spagna popolare e combattiva, impegno politico, carcere, «rivoluzione» letteraria — quanto per quella che sembrava la natura stessa della sua poesia: generosità e rigore, dedizione e fierezza, luminosità ed eloquenza. Una poesia piana, tutta dichiarata, senza residui, capace di rispondere con appassionata immediatezza alla sollecitazione dei fatti.
Certo, se vi è una poesia sulla quale i dati oggettivi di una situazione hanno agito più che come stimoli, come autentici condizionamenti, questa è la poesia spagnola dell’ultimo trentennio. E poiché, quando si dice poesia, si dice in realtà poeti, è indubbio che la particolare condizione esistenziale dei poeti spagnoli ha deciso spesso della loro poesia.
Può darsi che ciò sia, in definitiva, un segno di debolezza; ma è certo che la forza dei fatti fu spesso tale, forse, da giustificarla.
Ora, se è vero che non solo la critica, ma i poeti, caddero nell’errore di far coincidere, o di scambiare, alcuni fatti o circostanze, con la realtà, preparando a se stessi quella che, in un momento dato, sarebbe stata una profonda delusione, — conseguenza inevitabile della maturata consapevolezza della deformazione, è anche vero che i primi a commetterlo non erano stati i poeti della generazione del mezzo secolo o del realismo, ma che esso era più remoto, risaliva agli anni dell’immediato dopoguerra, e che il loro rappresentava, semmai, il tentativo di una confutazione.
Quella che qui si chiama invasione dei fatti, nel dopoguerra era stata massiccia. Al punto che coloro che la subirono, credettero a lungo che si trattasse di un evento universale.
Lasciando la metafora terrestre, direi che in quell’epoca i poeti spagnoli credettero di vivere su un continente alluvionato e irrimediabilmente sommerso.
È bene dire, a loro parziale discolpa che, pur accettando il fatto compiuto, e mentre un milione di morti si macerava sotto le acque della stagnazione — che tale era diventato il diluvio, perduta ormai qualsiasi dinamica — la poesia di quegli anni (trascuro quella occasionale alla quale, per la sua natura del tutto effimera, non si addice purtroppo neppure la definizione di fascista, anche se ideologicamente non si saprebbe quale altra attribuirle), diede prova di una sua relativa capacità di resistenza e di autonomia, rifiutandosi quanto meno di accogliere la pressione meccanica e brutale di quella palude, che pretendeva l’esaltazione e il trionfalismo, per farsi domestica, lasciare le strade, diventate del resto impraticabili, e gettare uno sguardo ogni tanto sul mondo sommerso, dalle finestre socchiuse. Espana en paz... Non si può dire che il monito amaro di Don Antonio Machado lacerasse le coscienze di quei poeti.
Del resto, con Machado era morto un soldato e non vi era colomba disposta a portarne il messaggio.

La prima poesia che apparve in Spagna all’indomani della conclusione della guerra civile, nel silenzio del continente sommerso, fu rinunciataria, e proprio perché non seppe e non volle essere altro che conservatrice.
Ignazio Delogu
Roma, dicembre 1968.

Delitti contro la speranza 

Ho commesso qualche
delitto contro la speranza.
Mi voglio giudicare.

Perse la vita perché doveva guadagnarsela
ogni giorno: cadde
nel tranello.
Si fece una casa d’allegria.
L’allegria si paga
cara in Spagna.

Allegramente, quindi,
si costruì la speranza,
una speranza di parole.
Lottò.
Fu ferito in battaglia.
Vedilo
con le mani legate
dentro
la sua casa.
Che esca, direte.
Per vederlo per strada
con le mani legate?
È quasi divertente
ciò che gli accade.

Non può che fuggire
dalla strada o da casa.
E non è anche vero che ha perduto
molta speranza?
Anche di questo, certamente,
si tratta.
Ma la lotta continua
non importa chi cade.
Se la sua mano è ferita
può servire la sua arma.
Ciò che ha perduto, altri lo ritrovano
nelle nuove battaglie.
La sua speranza è
in coloro che sperano.


Adesso domando sin che mi si gonfiano le vene del collo.
Perché non salgo sull’edificio più alto,
perché non mi metto al centro della piazza più grande
e grido sino a dissanguarmi?

Cammino spesso per la città
senza andare in nessuno posto.
E sempre vedo l’uomo che avanza sul marciapiede
con le sue enormi mani sconfitte nelle tasche,
quell’uomo che ha sul volto la domanda
condannato a vivere
fra parole nere come rivelazioni.

Un dolore mi prende se lo vedo
e vorrei fare qualcosa per lui,
avvertirlo di un pericolo, gridargli che stia attento
o pagargli il tram sino a un giardino.

Ah, comprendetemi almeno.
Io cammino per la strada
e abbraccerei d’un tratto quell’uomo con cappotto e tristezza.

Ogni uomo

In questa sera di pioggia
mi sono separato da me.
Sulla terra sola
camminavo adagio
voltando il capo
per vedermi nel banco
dov’ero rimasto
a guardarmi andar via.

Dal banco mi vidi
e mi lasciai seduto
per andarmene
nella città sotto la pioggia.

Lì mi separai di nuovo,
e nel parco,
e nella città senza pioggia
dove andai dopo
e in tutte le città
del mondo mi separo
ancora da me.

Ogni uomo del mondo
io sono. Ogni parola
è mia. Ogni riso
è mio. Ogni pianto,
umiliazione, dolore
lo sto sentendo adesso
io che sono ogni uomo.

Quest'uomo

Quest’uomo che grida
in una stanza vuota
bianca
chiusa
che grida sempre
però mai si apre la porta
del luogo in cui l’aria e i ricordi
lentamente si fanno marmo irrespirabile.

Un tranvai

Anche i giorni
ebbero spigoli.
Erano terribilmente quadrati,
esatti.
Le arance,
le sigarette,
persino il fumo,
tutto diventò infine
così terribilmente quadrato
come quei giorni
che ancora mi risuonano dentro,
vuoti
in mezzo alla mia vita.

E ogni notte,
in quella stanza
terribilmente quadrata,
ascoltavo il rumore
di un tranvai felice.

Da quando l’uomo è verticale

Da quando l’uomo è verticale, mai
fu costretto a vivere così curvo.

Mai, da quando l’uomo ha voce,
ha dovuto tacere così a lungo.

A volte viene voglia
di mettersi a gridare
in mezzo alla strada
e prendere a sassate
tutta questa vetrina.

Primo però

C’è delle volte,
però,
che vorrei conficcare
la penna
in mezzo al foglio
bianco
e assassinarlo per sempre.

Secondo però

Ho gridato
sempre
allegria
e
però
com’è triste
doverla gridare
perché esista.

Per molti secoli

Ogni giorno soffro per molti secoli,
rimango sveglio per molti anni
pensando ad ogni uomo che dorme.
Si sveglierà domani e il mondo sarà uguale?
Di nuovo incominciare, continuare
terminare, di nuovo la luce,
di nuovo dormire sino a domani?

Sveglio mi colloco in ogni uomo che dorme,
penetro nella sua memoria, nel suo pigiama,
respiro la sua aria, la sua donna, i suoi figli,
e non dormo più.

Che strano essere soltanto io,
che strano non essere tutti,
tu, voi, loro,
che strano non sapere né inglese né cinese,
non poter dire come si dice
buon giorno in russo,
che strano e che fatica
vivere come uno e soffrire come tanti!