Il Poema ininterrotto di Mauro Macario di Laura Cantelmo

“Sale piano dal mare/avanza sula spiaggia/l’invasione delle cinque/un umore biancastro/scivola a fecondare /rinascite impossibili/…/vuole portarti via/staccarti dal suolo/scalarti gli anni/fino alle età perdute/…/bello risentirla/poi entrare nella nebbia/per sempre.” Versi di una poesia eponima tratti dalla nuova raccolta di Mauro Macario “Il rumore della nebbia”. Pur conservando i toni forti che restano scolpiti nella memoria a cui Macario ci ha abituati fin dagli inizi, gli accenti lirici si sono andati accentuando nelle ultime raccolte, tanto che questa silloge segna una maggiore disposizione al ripiegamento su di sé.

Il rumore della nebbia è il più recente Canto di quello che mi permetto di definire ” Poema ininterrotto”, espressione matura di un discorso che dalle esuberanze giovanili, germinate dalla importante frequentazione con il grande poeta e chansonnier Léo Ferré, si è andato prosciugando e perfezionando nella forma senza mai abbandonare i temi e l’intensità emotiva dello stile. Un magistero, quello di Ferré, vibrante di stimoli creativi e di visione sociale che hanno aiutato Macario a raggiungere piena consapevolezza della propria ricchezza interiore e della conseguente potenzialità espressiva.
Nell’attraversare “l’inferno dei viventi” dominato dalla paura e dal vissuto dell’abbandono, Macario dà vita a immagini e a figure retoriche di notevole effetto visionario. E chi conosce i suoi versi ha percepito il sentimento di estraneità e di disillusione su cui si fonda la sua poetica, come confermano anche il titolo e i testi della sua recente autoantologia, Le trame del disincanto (2023).
La mia denominazione di “Poema ininterrotto” intende sottolineare la coerenza delle sue tematiche e la sua concezione della poesia come gesto di rivolta sia contro le avversità e le delusioni dell’esistenza che contro i vari aspetti della disumanizzazione a cui la storia passata e presente ci ha abituati- e in particolare la civiltà tecnologica. Un percorso di scrittura teso a plasmare e a dare vita alla parola scritta, alla sua fissità sulla pagina, fino a renderla sempre più una voce umana, profonda e alta, ricca di toni e di infinite sfumature. Una voce di attore quale lui è, una phoné ora vibrante e disperata, ora pacatamente ironica o fortemente sarcastica, che sussurra e grida nello svelare le proprie verità. Un vero e proprio monologo interiore, con immagini dettate dal fluire onirico della parola, poiché certe atmosfere non possono scaturire se non da visioni che nel sogno si presentano come lampi di luce rivelatori di un vissuto altrimenti frenato in quanto sepolto nelle anse della coscienza. Fino a quando un michelangiolesco, liberatorio colpo di martello consente loro di sgorgare impetuosamente all’esterno.

Il disincanto è termine polisemico che viene declinato da Macario in toni diversi e a volte contrastanti quando la sua persona è chiamata in gioco come maschera e come corpo vivo attraversato dalla Storia e dai cambiamenti sociali in prima persona. Ed è allora che la Storia diviene testimonianza e sintomo di un malessere collettivo che lui vive a un livello drammatico di consapevolezza.
La morte - di cui “la nebbia” è correlativo oggettivo e uno dei simboli - è il tema sotteso a tutta la raccolta ed è predominante nella sua poetica e intorno ad esso si dipana il suo monologo. Non è il pensiero della sua morte fisica ad opprimerlo in modo rilevante, è invece il peso delle assenze, delle perdita di persone care insieme a quel senso di decadenza inarrestabile del mondo che ci circonda -” le ossa di questa civiltà” - a rendere insopportabile e privo di significato il tutto. Lo sconforto di fronte a una realtà che talvolta abbiamo anche amato e nella quale oggi ci sentiamo stranieri nasce dalla percezione di un “occidente ….obitorio di viventi/stesi sul marmo in un lucido coma/[che]entrano all’emporio levandosi le scarpe/come alle moschee/...//”(“Luogo di culto”). Ed è proprio il sentirsi non-contemporaneo al presente, lontano da un tempo “fuori squadra “, ad aggravare la solitudine e lo smarrimento, negandogli la possibilità di affermare un’identità solida: “ Né angelo né demone /vivo in una terra di mezzo/un monolocale nel deserto/ aperto ai venti/cercando un’identità sabbiosa/” (“Esilio”). Nonostante ciò ci si rende conto che esiste in lui la preziosa risorsa di un irresistibile impulso alla scrittura, che non si arresta poiché in essa si realizza, insieme all’implacabile scandaglio dell’umano, la “passione dell’assoluto”, quell’assoluto che il lato adolescenziale della sua personalità cerca invano nella vita. L’assoluto che la storia del Novecento aveva in qualche modo promesso all’umanità, tradendo poi quel sogno che tante speranze aveva sollevato.

Ė la vita famigliare, dove nascono le prime relazioni affettive, a dare l’avvio alla “lunga stagione delle perdite”. Con la separazione violenta dalla madre ha inizio una sequenza di dolore, un adeguamento al lutto: “finisci per roteare, senza più aggancio con la navicella/…/in questo dimenarti nel vuoto/ troverai meteore d’impatto amoroso/che portano con sé il germe dell’abbandono/…”(“La famiglia”). Insieme al rifiuto di questa civiltà, la sofferenza per la perdita degli affetti più profondi richiama la leopardiana sequenza del dolore del “Canto notturno”: “Nasce l’uomo a fatica”/ed è rischio di morte il nascimento/prova pena e tormento/per prima cosa/…”. Con la morte di un padre indimenticabile il Poeta si è sentito abbandonato “in un mondo di lupi/sbranato nel tempo/ancora fanciullo indifeso” (“Dietro le quinte”)”. Non a caso la quercia è il simbolo della possanza della figura paterna, la cui maschera teatrale di attore comico cela il doppio ruolo di guida artistica e di genitore amorevole. La sua morte rende il figlio Mauro un “fanciullo “solo e devastato dal lutto in un mondo alienante e alienato da un cinismo e da un consumismo che ne fagocita ogni parvenza di umanità.
In uno dei testi più intensi, “Tandem”, dalla nebbia - parola topica che ritorna come simbolo evanescente dell’evento finale - in un clima surreale e inquietante di sogno emerge come fantasma l’immagine del giovane figlio di Mauro strappatogli da un drammatico incidente: “e tu non ci sei più/un rogo istantaneo/…/ ancora bruciamo per incontrarci/…/questa nebbia di primo mattino/porta messaggi e non vedo nessuno/una voce che sfuma in reliquia/mi dice salvami adesso che puoi”. Qui il lamento si alza come voce disperata per poi dissolversi in un perturbante intreccio di dolore e di senso di colpa che unisce entrambi – un padre e un figlio che invano si cercano - raggiungendo il pathos di una tragedia greca.
Se la vita è un insieme “di cose intraviste…un gioco tragico tutto da ridere”, il raccontare sé stesso con impietosa ironia fa parte di quello stesso gioco: ”ho sposato passanti/e ho divorziato /quando svoltavano in un’altra via” (“Suicidio a puntate”). Un’immagine di fugacità dell’esperienza che si riduce alla fulmineità del sogno, e al contempo svela la caducità di ogni momento felice, della bruciante inafferrabilità dell’attimo. Nel titolo di questo testo, uno dei più drammatici della raccolta, c’è una violenza che colpisce come un pugno allo stomaco. Il verso breve scandisce il ritmo incalzante del discorso che ha il tempo veloce della confessione e suggerisce l’immagine di una fiumana di carsiche rivelazioni, dietro alle quali risuona la risata sardonica da Poeta maledetto di fronte al clamoroso fallimento che è la vita. Se è vero che “tutto scorre”, come diceva Eraclito - per Mauro tutto, ma soprattutto l’amore in ogni sua manifestazione, sfugge nel momento stesso in cui si manifesta, perde consistenza e si consuma, lasciando dietro di sé il desiderio che mai si estingue.
“C’è una stanchezza del corpo e una dell’anima” ci dice il Poeta, nel portarci lentamente alla conclusione di questo tranche de vie che intende essere una forma di testamento “Il cerchio si stringe/tutti schizzano via/vanno in tribuna/ gelati e pop corn/ vogliono vedere/come me la caverò/ solo/al centro dell’arena/ad affrontare/ la dama nel torneo finale/ con le sue ossa affilate/ come una lama/ mi infilzerà/ spiedino dell’eternità.” (“Morte di un eroe”). Anche nel momento più drammatico, la cinica spettacolarizzazione della morte è un espediente per collegare la propria fine alla perdita del senso civile della nostra società.
Gli ultimi testi parlano esplicitamente di abbandono della scrittura poetica oltre che di morte: ”A questo punto/la storia finisce qui senza l’ultimo capitolo/che non ho scritto e non scriverò” E noi non possiamo esimerci dal rispettare, seppure con dolore, la sua dichiarazione d’intenti, benché l’ironia sfumi la tristezza dell’addio:”La capacità di creare/ tramite seduta spiritica/mi manca lo confesso/ nel caso fossi smentito mi raccomando/ una bella copertina/una foto di gioventù/…/”(“Finale con orchestra e solista”).
Non avendo voluto considerare come “ultima” questa raccolta, scritta e completata in modo esemplare nel giro di un mese, ma semplicemente come “recente”, nutro la speranza che nel formulare il suo congedo Mauro abbia voluto essere soltanto un fingidor, secondo la definizione di poeta data da Pessoa. Voglio ricordare a questo proposito una poesia edita dello stesso tenore, ma scritta con altro spirito nel 2000, intitolata “Fioretto”: “Basta poesia/tornare corsaro/ corsaro e basta/”, in : Le trame del disincanto, cit.,pag,176).
E pertanto non possiamo far altro che salutarlo affettuosamente e con forza: ”A presto, corsaro!”.
Milano, 19 Ottobre 2023

Il rumore della nebbia di Mauro Macario visto da Viviane Ciampi

Caro Mauro,

Ora ne sono certa: 


L'aria di Rimini ti fa bene! Ho avuto il privilegio di leggere il tuo “ultimo” (parole tue) libro di poesie procedendo piano, per ordine, a partire dalla toccante composizione “Crociera forza sette” in cui trovo i versi: "Le conchiglie frantumate sulla battigia / hanno lasciato le voci sul fondo / a calpestarle /scrocchiano come ossa rotte / la memoria fragile dei vecchi / si china ogni inverno / su spiagge gelate / a incollare sussulti / al silenzio dell'età". Queste parole hanno avuto un impatto profondo su di me e mi hanno spinto a riflettere sulla natura effimera della vita e della memoria. Ma l’interezza delle composizioni del libro sanno rivelare la bellezza intrinseca della vulnerabilità umana, dell’amore cantato e decantato, le illusioni e delusioni e la capacità (o no) di affrontare il passare del tempo con grazia e profondità emotiva.

Mentre leggevo la poesia eponima "Il rumore della nebbia", ho assistito alla cattura, in modo strettamente fotografico dell’immagine del "rumore biancastro" che "scivola a fecondare / rinascite impossibili" riuscendo a farci percepire la nebbia non solo come fenomeno meteorologico, ma come una casa malferma nel tempo, come una forza poetica potentissima, dimodoché si possano creare nuove opportunità e suggestioni, senso di mistero come di trasformazione.

E in ciascuna delle pagine, ho notato come tu rimanga fedele alla tua linea poetica, ma allo stesso tempo introduci novità intriganti che aggiungono complessità e mettono in evidenza la tua capacità di esplorare altre prospettive.

I versi "un fiato di tanti fiati / vuole portarti via / staccarti dal suolo" sono particolarmente intriganti. Rappresentano una sorta di richiamo alla fuga dalla realtà, un'esperienza di distacco e liberazione. La tua poesia riesce a toccare le corde dell'immaginazione e spinge il lettore a riflettere su concetti come il tempo, e la connessione con il passato. Aggiungo che è il libro di chi si è guadagnato il lusso di poter esprimere il proprio disappunto. Lo hai sempre fatto. Ma qui non hai bisogno di gridarlo.

Notevole La poesia finale "A questo punto / la storia finisce qui," dove annunci con serenità la fine del tuo racconto, suggerendo che la tua vita, come tutte le storie, hanno una conclusione inevitabile, ma senza ansia eccessiva, senza osare la parola gioia ma con un’ accettazione pacifica della fine.

La menzione della "capacità di creare / tramite seduta spiritica / mi manca lo confesso" è un riferimento all'idea di comunicare con i morti attraverso medium o sedute spiritiche, suggerendo un desiderio di lasciare un'impronta anche dopo la morte, ma ammettendo la tua incapacità di farlo. E qui scatta l’ironia che ti contraddistingue. È sempre ironia della disperazione quando non manca il desiderio di essere ricordato con una "bella copertina," una "foto in gioventù" (vezzo di un dandy?) e la "prefazione / di tutti quelli che ho amato," sottolineando l'importanza del ricordo e dell'amore indispensabile alle nostre vite. Le pagine si concludono con uno sberleffo al “nemico”. Ma sì, Mauro, meglio “un insulto postumo" a un tardivo sentimento, perché ‒ fedele a te stesso come già ebbi a dire ‒ preferisci la sincerità e la verità, anche se espressa in forma negativa. Condivido queste parole veraci nei confronti dei tuoi simili!

Sono ansiosa di continuare a leggerti ‒ anche se questo libro somiglia a un testamento ‒, a esplorare ulteriormente i tuoi pensieri, le emozioni attraverso la poesia, le note saggistiche, i romanzi. Viviamo felici in attesa dell’ultimo respiro!

Con l’affetto di sempre,

Viviane

 

Victor Hugo Quintanilla Coro: Testimonianza


Scopro questo poeta o personaggio pubblico o, chissà insegnante boliviano con questi versi
e per tutta la notte non faccio che tradurre ma  non basta. Vorrei sapere cosa fa, gli anni, dove e se insegna, se giovane o vecchio e con chi ha, se lo ha davvero un rapporto con questsa donna, anctica e magica, misteriosa e dolente che non riesce a togliersi di dosso.
Allora quel sangue diventa mio e traduco con la curiosità del bambino che vuol conoscere questo compagno di giochi che vive dall'altra parte della terra!

(beppe costa)

Testimonianze

1.

Ti ho incontrata
quando gli uomini aarrivavano da te,
per sfogarsi sulla tua pelle di immigrata.

Il tuo sorriso li allontanava
da letti apocalittici,
da dove sono tornati come se il tuo grembo
potesse restituire loro la dignità.

Ti stavo cercando
come se avessi diverse vite
così da perdermi in te,
disposto a sacrificare la mia unica stella
e vivere quel sangue di altri destini.

Quando hai permesso che mi scoprissi in te
eri un animale mitologico
a divorare le mie carni,
una femmina indigena
affilando lame con le mie ossa,
una zingara dolente
che somministra pozioni segrete
con i miei capelli.

Mi hai abitato
senza mascherarti in nesuna fede,
senza la speranza di alcuna stirpe.

Eri solamente tu
-completa com’è l'universo-
rendendoti presente una e più volte
con i desideri più antichi di questo mondo.

Poi sei sparita avvolto
nella nebbia di albe impossibili,

lontano da quei desideri
ignara del tuo modo di essere donna.

Hai camminato come se la vita degli altri
non iniziasse da nessuna parte,
come se l'illusione più cieca
veniva pacificata per sempre
nel tuo sguardo.

Mentre gli altri strisciavano verso di te,
come fossi la terra promessa,
Ero un uomo
inconsolabilmente autunnale all'interno,
un uomo vecchio che si strappa la pelle
per scoprirti
in qualche nuova ferita.

Quando nient'altro poteva rassegnarmi,
sei riapparsa ancora con tutte le donne
apparse tuoi occhi,
aperti per arrendermi alla fine del mondo.

Mi hai posseduto con il rapimento della vergine
cercando di recuperare la pura innocenza ,
con l'incuria di una pancia
che non ha cercato di ridare la vita.

Ero allora
un uccello meno assetato sulla terra,
un nuovo Lazzaro
giurando di darti una ancor meglio resurrezione,
un vagabondo
che canmmina di dritto verso le tue gole.

III

Ma la tua assenza si è fatta sentire ancora una volta
con l’antica età del nulla
e nei miei occhi nidificavano uccelli di sabbia
che mi prudevano
nel caso tu fossi in quelli.
Così difficile trovarti!
in mezzo a tanta luce!

Come Adamo mi sono rassegnato a perderti
decidendo di rinunciare
alla sua prima disobbedienza.

Partii
una guerra nostalgica fuori luogo,
un altro espatriato della tua carne,
una croce senza fondo che moltiplica il suo sale
per una donna coltivata nell'orgoglio
che non smette di aprirsi come un abisso.

Il vuoto mi ha trasformato in mostro
la tua voce ignorava le mie parole
mi vedo precipitare nel tempo
con la domanda che ho deciso
di non farti mai.

traduzione dallo spagnolo: Beppe Costa

TESTIMONIO

1

te conocí
cuando los hombres llegaban a ti,
para desahogarse en tu migratoria piel.

Tu sonrisa solía llevarlos
a lechos apocalípticos,
de donde volvían como si tu regazo
les hubiera devuelto la dignidad.

Yo te buscaba
como si tuviera varias vidas
para perderlas contigo,
dispuesto a sacrificar mi única estrella
y vivir en la sangre de otros destinos.

Cuando te dejabas descubrir en mí,
eras una fiera mitológica
desprendiéndome la carne,
una hembra indígena
afilando lanzas con mis huesos,
una dolorosa gitana
haciendo pócimas secretas
con mis cabellos.

Me habitabas
sin la máscara de ninguna fe,
sin la esperanza de ninguna estirpe.

Eras únicamente tú
-completa como el universo-
haciéndote presente una y otra vez
con los deseos más antiguos de este mundo.

II

Luego desaparecías envuelta
en la neblina de madrugadas imposibles,
lejos de aquellos anhelos
ajenos a tu forma de ser mujer.
Caminabas como si la vida de los demás
no empezara en ninguna parte,
como si la ilusión más ciega
estuviera pacificada para siempre
en tu mirada.

Mientras otros se arrastraban hacia ti,
como si fueras la tierra prometida,
yo era un hombre
desconsoladamente otoñal por dentro,
un viejo estepario desgarrándose la piel
por si te descubría
en alguna nueva herida.

Cuando ya nada más se podía resignar en mí,

aparecías otra vez con todas las mujeres
despiertas en tus ojos,
abiertas para entregarme el fin del mundo.

Me poseías con el arrebato de una virgen
buscando recuperar su primera inocencia,
con la despreocupación de un vientre
que no buscaba repetir la vida.
Yo era entonces
un pájaro sediento menos en la tierra,
un nuevo Lázaro
jurando entregarte su mejor resurrección,
un vagabundo
con el camino horizontal hacia tus desfiladeros.

III

Pero tu ausencia regresó una vez más
con la edad más antigua del vacío
y en mis ojos anidaron aves de arena
que me picaban las miradas
por si te encontrabas en ellas.
¡Era tan difícil encontrarte
en medio de la luz!
Me resigné a perderte
como un Adán que decide renunciar
a su primera desobediencia.

Fui
una extraviada guerra de nostalgia,
un expatriado más de tu carne,
una cruz sin fondo multiplicando su sal
por una mujer cultivada en un orgullo
que no deja de abrirse como un abismo.

El vacío me convirtió en un monstruo
que calló tu voz en mis palabras
y me dejó caer en el tiempo
con una pregunta que decidí
no hacerte jamás.

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