arricchito da una lettera di Dacia Maraini.
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Riportiamo il Capitolo Primo
Eravamo al mare: guardando le
onde dal molo, il bambino disse: - Certe volte, mamma, le onde si portano
dietro i capelli bianchi, non è vero?
- Quella notte, dottore, Federico disse che voleva dormire nel letto grande. Fece un lungo capriccio. Fino a quando io... Gli dissi che non poteva... Perché nel letto della mamma dormono i suoi amici.
Era una perfetta domenica di
luglio. Quel giorno, Lucrezia compiva cinquant'anni. Nella sua stanza, Antonio
suonava.
Al principio, lei non aveva
capito. Anzi, le sembrava un dono, un miracolo, l'idea del suono di un
pianoforte, di una tromba, nello spazio acustico della sua casa, scandito
soltanto dall'ottuso pestaggio sopra i tasti della macchina da scrivere, o
dall'invadente parola televisiva. Il rimorso di aver fornito al figlio, per
tutto l'arco dei suoi diciassette anni, nient'altro che i desolati rumori
dell'attualità, svaniva, per una volta, nell'allegria di un'illusione: che proprio
suo figlio, quel figlio - ne aveva due - le avrebbe appreso la lingua celeste
dei suoni, da cui, per avarizia, si era esclusa.
O affiorava ancora una volta
in lei, si chiese, l'ingordigia di vivere anche le loro vite?
Era già accaduto quando li
aveva persuasi, adolescenti, ad iscriversi al Partito, delegando oscuramente a
loro un peso che s'era sempre rifiutata di portare. O quando, più tardi, aveva
attraversato insolente i loro primi itinerari amorosi, mentre avrebbe dovuto
ritrarsene (sillabava) si-len-zio-sis-si-ma.
Madre
scomoda
madre
anomala
Madre
di transizione.
Madrefiglia
di
un'altra madre
maniacalmente
nella
norma.
"...Per cui ai due
bambini è stato proposto un doppio modello materno, conflittuale. La lettura va
completata con il rilevamento dell'assenza del padre."
La scheda perforata
fuoriesce dal computer psicoanalitico. Resta la vita. Resta la scrittura. Trascrittura.
Il sette
marzo Antonio era arrivato da scuola ed aveva detto che non ci sarebbe tornato
mai più. Voleva studiare musica. L'estate prima se n'era andato dalla sezione
rionale del Partito. Era luglio, anche allora. Il ragazzo aveva lavorato fino
alle due di notte a smontare la
Festa dell'Unità. Nella piazza mirabile delineata
dall'austero fondale di Palazzo Farnese, al suono doppio delle fontane.
Cartacce, plastica, bottiglie. Antonio aveva riempito con cura otto bidoni,
ferendosi al piede su un coccio di vetro.
Anche lei
tornava da una festa, quella notte. Perciò si erano incontrati. Le feste sugli
attici romani: il suo vizio, il suo anestetico. Terrazze cinematografare, dove
i sogni si trascinano, obesi.
Antonio
le disse: - Devo parlarti. Disse che aveva strappato la tessera del Partito. E
basta. Non accusò, non volle spiegare. Per la prima volta, Lucrezia lo sentì
asserragliato in pensieri che non le avrebbe mai detto. Eppure il loro livello
di dialogo fino a quel momento era stato ottimo e...
Si
morse le labbra. Non aveva dunque più parole se non quelle, liofilizzate, del
linguaggio dei genitori democratici? L'aveva subito e imposto per anni,
sentendolo, in bocca, farsi tragicamente decrepito, un giorno dopo l'altro, da
un giorno all'altro. Con l'avvento dell'eroina. Delle BR.
Già il
primo figlio, Federico, l'aveva costretta a scacciarlo di casa. Il Tac
psicoanalitico leggeva Edipo. Era venuto il padre a prenderselo. E immediatamente
il suo sentimento materno s'era ibernato. Per mesi, incontrandolo al mercato,
non lo riconosceva subito; doveva chiamarla lui, sorridendole tra i riccioli
imbruniti, dal chiaro dell'infanzia. Si dicevano ciao, facevano la spesa allo
stesso banco, poi di nuovo ciao. Nessuna tragedia, nessun dolore, neppure
malinconia o almeno il residuo della lunga guerra d'amore che avevano
combattuto ad armi egualmente impari e sleali: lui, maschio e bambino: lei,
donna e adulta.
Il profilo di Federico, sbilenco
e inanellato nel sole, in corsa sulla riva di canne ed alghe del lago
vulcanico.
Una mandria di
vacche avanzava mansueta verso la sua Cinquecento turchese, parcheggiata male
sull'erba.
- Te la
sposto io, mamma, non ti preoccupare...
Il
bambino si mise al volante. Dolores, ridendo,
gridò:
- Lo vedi che
sei una pazza? Far guidare la macchina a un bambino di undici anni! Ti pare che
non piacerebbe anche ai miei figli? Ma, cara mia, io sono una madre seria...
Non si azzardano neanche a chiedermelo!
L'amica stava a gambe larghe
sull'erba, erano così diverse, salvo che per il fatto di vivere sole tutt'e
due, e con figli maschi. Passavano insieme le domeniche con la tribù dei loro
bambini - ed altri, figli di madri pigre - lontano dalla città. Era prima del
femminismo. Era prima, le sembrava, anche dell'approvazione della legge sul
divorzio. Insomma, era prima. E, dopo, aveva incrinato la loro amicizia,
penetrandola di malessere, la scoperta che la solidarietà tra donne è un fatto
politico. Loro due l'avevano vissuta spontaneamente in quegli anni sul terreno
comune, forse nemmeno identificato, certo mai - allora - verbalizzato, di una
maternità meridionale di ventre, di radici e liane intrecciate e resistenti. Al
fondo di una emancipazione, questa sì eguale e diversa, nell'una e nell'altra;
perché nell'amica era spregiudicatezza quotidiana tutta naturale, alimentata da
un carnivoro egoismo, cui i figli venivano associati come se mai si fossero
staccati dal suo grande corpo: e quindi provvedeva per sé, provvedeva per loro,
godeva per sé, godeva per loro; e l'assenza di rimorsi, le consentiva sicurezza
ed autorità. Per lei, al contrario, l'emancipazione era guerra guerreggiata
d'ogni momento, senza un filo d'umorismo, dicevano... E il tremore? Martellava
slogans sulle nuche tenere dei figli, una madre nuova per figli nuovi.
E non
sarebbe bastato, ovattare le idee d'una doppia coltre tiepida, protezione
d'amore: se li amo di più, saranno più forti, e potranno permettersi di non
essere come gli altri.
No, non
sarebbe bastato a salvarli da una società che non li riconosceva.
- Ma
lei, mia cara, prende tutto troppo alla lettera!
Non
aveva più dimenticato la sfavillante ironia di quegli occhi blu maiolica,
quando li aveva finalmente incontrati, nel sole circoscritto e nitido di una
piazza romana e lei, alla bocca dello stomaco, sentiva premere e dolere il
grumo delle pagine giallopaglia, Le Deuxieme Sexe, edizione Gallimard
millenovecentoquarantanove: allora aveva osato chiedergliene conto,
riconoscendo, nell'idolo venerato, la maestra della sua individuale sconfitta.
- Credevo
che davvero per essere autonoma una donna deve guadagnarsi da vivere ogni
giorno, anche se è incinta, anche se è malata... Anche se ha un marito che l'ama.
E
l'altra le aveva rinviato, da lidi supremi e inaccessibili, non più del soffio
di una battuta mondana: - Mais vous-savez, ma cherie...
Inchiodandola
al macigno della sua stoltezza.
Le
donne in quell'estate del millenovecentosessantanove già avevano cominciato a
chiamarsi impazienti l'una con l'altra, cercandosi nel buio delle catacombe
patriarcali, ma Simone De Beauvoir soltanto qualche anno dopo avrebbe
confessato: "Sì, anch'io, avendo giocato più o meno un ruolo di
donna-alibi, ho creduto a lungo che certi inconvenienti dovuti alla condizione
femminile, dovessero essere taciuti o comunque eliminati senza scalpore".
Così,
racchiusa nel riccio spinoso delle idee, Lucrezia sentiva di non averne mai
saputo liberare la dolcezza, il sapore della castagna.
Nel bosco di Castelnuovo
di Porto avevano raccolto molte castagne, i ragazzi, prima di andare al lago,
in quella domenica ottobrina. E lei guardava l'amica espandersi nell'erba in un
trionfo di carni mature e vellutate, e risa e stoffe zingaresche. Avevano fatto
l'ultimo bagno, prima della riapertura delle scuole.
- Vi ho visti, sai, te e Federico in acqua sul materassino... Un flirt indecente!
- Vi ho visti, sai, te e Federico in acqua sul materassino... Un flirt indecente!
E
rideva, Dolores.
- Mamma, ho
l'Edipo felice, c'è scritto qui... Dubbioso, il ragazzo creolo porgeva alla
madre un foglio di giornale. E quando visitavano insieme le chiese, la domenica
mattina, madre e figlio, a riguardare affreschi, era lo scandalo, la
riprovazione, nel cerchio colto delle loro amicizie.
- Mamma, devi
trovarmi subito un'altra casa, oggi. Ho il complesso di Edipo.
La voce
fanciullesca di Federico reclamava da un telefono a gettoni. Era appena uscito
dallo studio dello psicoanalista, nelle cui mani lei stessa l'aveva consegnato,
quando s'era fatta implacabile la persecuzione, la guerra, che egli, infantile
e spietato, le muoveva. Voleva salvarsi, voleva salvarlo, voleva espiare?
L'occhio
ridente, trillante, azzurro, il ricevitore incollato all'orecchio paffutello,
un cherubino molto furbo, questo era l'analista che lei aveva selezionato con
cura.
- Ma
che cosa vuole che sia una madre un po' scopereccia?
Non
aveva mai ottenuto altra risposta, mentre gli scaricava davanti, a bracciate,
le macerie della sua vita, perché vi decifrasse, tra calcinacci e rovine, i
dolori del figlio adolescente.
O era
esibizionismo, il suo, invadenza - l'ennesima - nello spazio inviolabile d'una
personalità in crescita? E perciò l'analista aveva usato le parole turpi come
un bisturi, per recidere, in lei, da lei, la parte infetta che ammorbava il
figlio?
- Ma
che cosa vuole che sia una madre un po' scopereccia?
Il colpo di bisturi.
- Ma che cosa vuole...
E, strizzando l'occhio, allungava
la mano.
Colpa
sua che gli aveva raccontato peccati. Ho degli amanti. La notte faccio l'amore
con loro nella mia casa. Li obbligo ad andare via prima dell'alba per paura che
i ragazzi si sveglino. O perché non desidero, io, svegliarmi pacificata nel mio
grande letto, insieme a un uomo?
- Quando
Federico aveva sette anni, una notte voleva dormire con me.
Una foto recente di Liliana Arena, da Pellicanolibri |
- Quella notte, dottore, Federico disse che voleva dormire nel letto grande. Fece un lungo capriccio. Fino a quando io... Gli dissi che non poteva... Perché nel letto della mamma dormono i suoi amici.
E non
era neppure vero, allora, Federico, te lo giuro. Lo dissi per lo spasimo
incontenibile di proclamare una libertà che non ero capace di prendermi.
Enunciavo un manifesto stentoreo di emancipazione, un delirio verbale... E che
senso di vergogna a riprovare, ora, tra le labbra, il sapore di quella parola
oscena... Nemmeno il coraggio di dire amanti. Il coraggio di spingere la
brutalità, la violenza contro di te, bambino, fino in fondo.
L'unica
scusa: ero sola. Le donne, le altre, le altre simili a me, ancora tacevano. Non
potevo riconoscerle, non mi riconoscevano.
Risentiva
le mani piccole del figlio aggrapparsi ai seni avari, da cui non aveva avuto
nemmeno una goccia di latte:
- Ed io
te li taglio, tutt'e due, prima questo e poi quest'altro...
Il
veterinario preparò l'iniezione. Signora, se non vuole guardare non guardi. Il
corpo del gattino tigrato si irrigidì, giacque. Lei non guardo più. Federico
l'aveva chiamata dal telefono a gettoni, la mattina presto. Da otto giorni
abitava solo, in una casa senza telefono, seminterrata, stipata di mobili
esotici che il padre aveva accumulato in mille anni di viaggi, disseminandone
case che non avrebbe abitato mai, lui, l'ex legionario, sempre altrove. Ed ora
suo figlio dormiva in un gran letto matrimoniale di bambù, Lucrezia l'aveva
appena intravisto, sapeva che le era proibito vedere il luogo dove, prescritto dall'analista, egli avrebbe
dovuto intraprendere il suo itinerario verso l'autonomia. Svezzarsi da una
madre che non lo aveva mai allattato.
Ma il
figlio l'aveva chiamata, vieni a prenderti il gatto che mi ha regalato Olga,
ieri sera scendendo i gradini l'ho pestato, non lo avevo visto, e tutta la
notte ha miagolato, non vuole il latte, ho paura di avergli fatto molto male.
Vieni tu a vedere.
Così
era andata: e non poteva, e non doveva.
Il
gattino tigrato aveva la schiena rotta. Stava nel suo cesto e li guardava -
lei, il figlio - con gli stessi occhi celesti di Olga.
Gli
occhi di Olga specchiavano i suoi di trent'anni prima.
Disse
il figlio con ira:
- Non
so perché mi abbia regalato questo cazzo di gatto.
Lei
azzardò, già convinta di sbagliare:
- Ma
per farti compagnia!...
- Non
ho bisogno di compagnia! Lei e quella stronza della sua famiglia, cattolici di
merda, che per passare una notte fuori di casa deve inventarsele tutte...
Urlava.
- Ma
questo non ti riguarda, hai capito? Tu hai fatto la mia infelicità, tu hai
rovinato la mia storia con Olga, tu hai rovinato la mia vita.
Ne era
così persuasa che non poteva sentirglielo dire senza gridare forte il dolore,
e, nonostante, pativa l'ingiustizia dell'accusa: allora chiamava in scena
l'altro, il padre. E li riallacciava la spirale della loro inerme reciproca
violenza, madre e figlio avvinghiati senza scampo, ondeggiando sotto i colpi di
frusta che l'invisibile mano del d97’87ominio vibrava da secoli contro la minaccia
di un'alleanza ai suoi danni.
Dopo,
raccolse il gatto moribondo nel suo cestino e disse che sarebbe andata subito a
cercare un veterinario, che l'avrebbe salvato. Ma non c'erano veterinari. Era
la prima domenica d'agosto, la città vuota. La notte il gatto non si lamentava
più. Lo tastò, lasciandolo scivolare nel cavo delle mani, per sentire se era
vivo. Palpitava, piccolo, tenero, straziato. Il lunedì mattina lo portò alla
Lega per la Protezione
degli animali. L'uccisero con una iniezione di curaro.