Noi siamo la Libertà di essere eccellenti. Da millenni di Alessandra Tucci


Un popolo di furbetti, truffatori, scellerati. Il sole in fronte e una mano infilata nel giubbotto altrui. A frugare nel frugale.

Indisciplinati, oziosi, viziosi, italiani fannulloni sempre pronti a raggirare. Il vicino, il sistema, l’avventore. Un occhio strizzato a mo’ di intesa, la circuizione, l’altro già lanciato sulla via di fuga, l’evasione.

Tuttologi ignoranti, fannulloni spendaccioni incompetenti, irreparabilmente inconsistenti, festaioli istigatori nell’arena del superfluo. L’arte, la cultura, la convivialità, l’attività sportiva. La movida sciagurata.

Un popolo mendace e questuante da disciplinare e riportare alla (altrui) ragione.

Quando?

Quando la smetteremo di credere a questa infam(ant)e story telling nata già stantia e trasmessa a reti unificate a (tentare di) avariare. Quel che siamo.

Quando ci sveglieremo dal torpore dell’ipnotico racconto alieno ed alienante. Scritto ovunque e oralmente enfatizzato a megafoni spanati, la memoria storica e del cuore relegata a mera nota a margine. Da cancellare.

Quando alle lacrime e sangue quali conseguenza e punizione di ciò che siamo risponderemo con una semplice puntualizzazione.

Noi siamo Seneca, Adriano, Archimede, Virgilio, Plinio il Vecchio. Siamo Giulio Cesare che ha lasciato tutto ciò che aveva al proprio popolo senza farne parola con nessuno prima della sempiterna congiura elitaria alla quale è andato incontro a volto aperto.

Noi siamo Troisi, la Magnani, Alberto Sordi, Camilleri, Gigi Proietti, siamo Adriano Olivetti che ha tenuto bene a mente ed applicato l’unica raccomandazione che abbia un senso, quella fattagli dal padre al passaggio di consegne: non licenziare mai un lavoratore, umilieresti l’uomo. Non ha mai tolto salario e pane a un dipendente per non sbarrargli, con stenti ed indigenza, ogni via di evoluzione. Umana, culturale, sociale. Spirituale.

Noi siamo Beccaria, Boccaccio, Petrarca, Leopardi, siamo quel Dante, l’Alighieri, che ci ha guidati fuori dalla selva oscura. A riveder le stelle e scoprire che l’astro più brillante è il divino che passa attraverso lo sguardo umano. Se lo sappiamo intercettare, se davvero abbiamo occhi per vedere.

Noi siamo Marco Polo, Galilei, Copernico, Marconi, siamo l’incappucciato dritto e fiero al centro di Campo dei Fiori, quel Giordano Bruno che non ha rinnegato il proprio sé e la divinità dell’uomo e all’abiura ha preferito il rogo. Perché le fiamme incenerissero credenze e falsi miti squalificanti l’identitaria correlazione tra divino e umano. E restasse in piedi e alla storia il capolavoro, l’Universale.

Noi siamo Michelangelo, Giotto, Raffaello, Verdi, Puccini, siamo Ezio Bosso Morricone e Battiato, la Montalcini, il Da Vinci, con Pirandello siamo sempre in cerca di un nuovo autore per riscrivere la storia. E migliorare.

Noi siamo Primo Levi, Tomasi, Totò, Pasolini, De Filippo, siamo la Fallaci, Sandra e Raimondo, la Marchesini, siamo risata pronta e mente penetrante. Noi siamo Pertini, la libertà di essere eccellenti, italiani.

Quando ci diranno che siamo un popolo di sciagurati mendicanti col cappello in mano risponderemo che il cappello noi ce lo togliamo sempre e solo per rispetto. Di ciò che siamo.

Noi siamo Moscati e la sua cesta per curare gli incurabili con su scritto “chi ha metta, chi non ha prenda”, siamo Leonardo Bianchi che fece fare un passo in là alla psichiatria in un procedere che lascia spazio libero al passo successivo, quello altrui, siamo l’intuito di Cardarelli che vede il tutto umano per individuare dove si è bloccato, siamo con Ciaburri contro la scienza che viviseziona, siamo Capozzi e siamo tutti Di Bella, la scelta del paziente alla carriera, siamo quell’umanità che si chiama scienza ed etica, siamo co-scienza. Siamo fieramente tutti Gino Strada.

Noi siamo Aldo Moro, Dalla Chiesa, Impastato, siamo Falcone e Borsellino, siamo tutti e ognuno il Dott. De Donno, siamo ogni singolo cittadino che non baratta i diritti umani con la paura di essere multato per non voler violare la Costituzione, la nostra sacra spina dorsale.

Siamo quella cultura imprevedibile e pioniera che è impossibile strapparci dalle viscere dell’anima,
noi siamo le note vive che in perfetta assonanza compongono la sinfonia che ha incantato per millenni il mondo.

Un’orchestra con infiniti direttori a guidarla con sapienza coraggio ed eleganza dall’alto del podio che hanno guadagnato in vita nei millenni.

Che riaccordi gli strumenti. E (si) riprenda la scena.

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Per i morti della pandemia - For the dead of the pandemic 4/5 settembre 2021



Da una proposta dell'International Literature festival of Berlin con un gruppo di scrittori e poeti organizziamo una lettura online nei giorni
di sabato 4 (dalle ore 18) e di domenica 5 settembre (dalle ore 17 e 30.
realizzata una antologia con i versi e le biografie in italiano e inglese
Il sito del Worldwide Resding for the pandemic dell'Internationales  literaturefestival Berlin
clicca QUI





Interverranno gli autori:
Alessandra Trevisan (Venezia), Alessandra Tucci (Roma), Alfredo Perèz Alencart (Salamanca), Ali Al Ameri (Giordania), Andrew Singer (New York), Anna Maria Curci (Roma), Antonio Vanni (Isernia), Claudio Moica (Carbonia), Cristina Polli (Roma), Daniela Dante (Brescia), Era Buçpapaj (Tirana) Evan Myquest (Sacramento), Fabiola Sali (Milano), Luan Rama (Parigi), Lucianna Argentino (Roma), Marco Cinque (Roma), Nikolle Loka (Tirana), Nora Capomastro (Cagliari), Olimbi Velaj (Durazzo), Patrizia Nizzo (Nettuno), Poul Lynggaard Damgaard (Aarhus), Said Abu Tabanja (Gaza), Simone Principe (Isernia), Stefania Di Lino (Roma), Tendo Taijin (Tokio), Ugo Magnanti (Nettuno), Uke Buçpapaj, (Tirana) Valbona Jakova (Ghedi), Beppe Costa (Roma)

e i musicisti: Marcos Vinicius (chitarra-Brasile/Roma), Nicola Alesini (sax-Roma) 
e Matteo Cavicchini (piano-Mantova)

un particolare ringraziamento a Era Buçpapaj e Valbona Jakova per le traduzioni
a Marcello Aslan per le letture

foto copertina: Dino Ignani
per scaricare l'antologia clicca QUI

The international literature festival berlin [ilb] calls on individuals, schools, universities, cultural institutions and media to participate in a Worldwide Reading for the Dead of the Corona Pandemic on
September 5, 2021. The reading is intended to commemorate those who died in the pandemic.

For more than a year, the world has been in the grip of the pandemic. Nearly three million people worldwide have died from Covid-19. Not a day goes by when we are not confronted with statistics and curves on current deaths and illnesses. Yet, it often remains abstract numbers. The individual person and the individual stories behind them are hardly present in the public perception. Illness, death and grief have become largely invisible due to precautionary measures.

Many people die alone, behind closed doors, and are buried in small circles. In many cases, there is no way for relatives and friends to say goodbye - and if they do, it is at a distance or in a digital setting. Literature has the potential to give expression to this situation, to counter isolation at least through reception. It finds narratives away from the everyday images of horror, tells of loss from different perspectives, and helps to make the incomprehensible tangible, the intangible comprehensible.

Readings can take place anywhere, including privately in a small circle, in a school, in a cultural institution or on the radio. People who would like to participate with a reading on September 5, 2021 are asked to send us the following information: Organizers*, venue, time, participating actors, event language, link to your website if applicable. 

The email address is: worldwidereading@ literaturfestival.com. The ilb will soon publish all texts for the reading in various languages on the website www.literaturfestival.com and announce the events there and on social media.





Jacques Brel: La Chanson des Vieux Amants



Una delle più belle canzoni mai scritte da un Poeta universale:

Certo ci fu qualche tempesta
anni d'amore alla follia.
Mille volte tu dicesti basta
mille volte io me ne andai via.
Ed ogni mobile ricorda
in questa stanza senza culla
i lampi dei vecchi contrasti
non c'era più una cosa giusta
avevi perso il tuo calore
ed io la febbre di conquista.
Mio amore mio dolce meraviglioso amore
dall'alba chiara finché il giorno muore
ti amo ancora sai ti amo.
So tutto delle tue magie
e tu della mia intimità
sapevo delle tue bugie
tu delle mie tristi viltà.
So che hai avuto degli amanti
bisogna pur passare il tempo
bisogna pur che il corpo esulti
ma c'é voluto del talento
per riuscire ad invecchiare senza diventare adulti.
Mio amore mio dolce mio meraviglioso amore
dall'alba chiara finché il giorno muore
ti amo ancora sai ti amo.
Il tempo passa e ci scoraggia
tormenti sulla nostra via
ma dimmi c'é peggior insidia
che amarsi con monotonia.
Adesso piangi molto dopo
io mi dispero con ritardo
non abbiamo più misteri
si lascia meno fare al caso
scendiamo a patti con la terra
però é la stessa dolce guerra.
Mon amour
mon doux, mon tendre, mon merveilleux amour
de l'aube claire jusqu'à la fin du jour
je t'aime encore, tu sais, je t'aime.

per ascoltare l'edizione originale cantata dall'Autore: 

Per la fondazione Jacques Brel clicca QUI
https://it.wikipedia.org/wiki/Jacques_Brel

per la versione di Franco Battiato questo il link: 

La leggenda del Colibrì di Alessandra Tucci

 Era una calda giornata estiva, caldissima più che calda. Bollente.

Di quelle in cui non si ha neanche l’energia di pensare che forse un qualche pensiero sarebbe pure il caso di pensarlo. Così, tanto per diversificare l’apatia. Vivificare la flemma insomma.
Gli animali giacevano tutti all’ombra di qualcosa, anche il filo d’erba se l’erano giocato a dadi.
La savana ha spazi ampi ma frescure circoscritte.
Niente assembramenti  però, per carità, in quella specie di giungla dal nonsenso predatorio di tolleranza non è che ce ne fosse in quantità. 

Zampa a zampa sì, ma senza sfiorarsi che i predatori non ammettevano alcuna confidenza da parte dei predati.
Non che in quella specie di pentola a vapore avessero una qualche velleità di cacciarli, non avevano energie neanche per spostarsi.  Giusto le rane le avevano trovate per darsela a zampette,  si erano un po’ stufate di farsi bollire a fuoco lento dal primo venuto. Fosse pure il sole spacciatosi per vita salubre, quelle col trabocchetto della cottura a fuoco lento avevano già abbondantemente dato.
Che facesse caldo non è che sorprendesse in realtà, il caldo lì era la tassa fissa da pagare.

Ma questo era un caldo strano, diverso, saliva con il discendere del sole. Incomprensibile.
E nei paraggi non c’era neanche la volpe a mettere a disposizione di quel consesso di vigorosi benpensanti il suo acume ad offrire una qualche soluzione. Magari, volesse il cielo,  salvifica. A dare una svegliata con qualche lampo di intuito, una qualche spiegazione a quell’aria che ammazzava velleità voglie e istinti primordiali. Anche la volpe se n’era già bella che andata, questo è quanto.

C’era il fumo, questo sì, quanto se ne voleva. Nero, denso, fastidiosamente acre.
Profondamente irritante. E non è che i predatori in quel circolo di forestali anonimi ma boriosi non fossero facili all’irritazione, una foglia calpestata male e quelli scattavano su come belve. O facevano scattare le compagne che era meglio. O un qualche ringhio.
In questo caso a onor di cronaca levavano latrati più che ringhi. Che ricadevano sistematicamente loro addosso.  Insieme a laute manciate di cenere.  Ad imbiancare. Criniere peli ali erba e foglie. Quelle rimaste.

A volte la manna, tal altra la cenere. Ad ogni buon conto, è sempre il cielo a far piovere allerta e soluzione. In testa agli orbi. Urbi et orbi.
Ma rimanevano comunque tutti acquattati.
Re e corte intera non davano cenno di una qualche concreta iniziativa, di quelle regali, tutti gli altri zitti e muti quindi, una disobbediente sgranchita di zampe magari verso un filo d’acqua a rinfrescarsi non sapevano proprio come motivarla. Non sapevano scrivere, figurarsi se sapevano firmare le proprie giustificazioni.
Niente rane, nessuna volpe, la leonessa s’era stancata di quel reuccio imbelle che si lasciava imbiancare la criniera senza alitare e se n’era andata e farsi lucidare la sua di peluria.

Non si capisce cosa chi come, non si capisce da dove sia arrivato il guizzo di prestanza, eppure il re leone e il suo team di predatori di fiducia sono scattati in un lampo tutti sulle zampe. Così, all’improvviso e in contemporanea, dritti e bruciacchiati.
Cos’era tutto quel caldo che li stava abbrustolendo?
Anzi che finalmente una domanda se la sono fatta.

Si sono guardati attorno e si sono pure illuminati:  un incendio pauroso gli stava deforestando la frescura, un’altra mezza dozzina di minuti di bivacco nella siesta pomeridiana e finivano  deflorati pure loro. Con tutti i gingilli e gioielli di famiglia.

Il re dal cuor di leone fu il primo. Dritto verso il grande fiume, a zampe levate. Doveva pur aprire la strada e guidare sudditi e reggimento. Al fugone.
Al seguito regale praticamente tutti. Elefanti, zebre, rinoceronti, gazzelle, tigri, antilopi. Insomma, tutti.
Tutti e il Colibrì nella sua nota prestanza di due grammi. 

Solo che tutti si catapultavano in direzione acqua, il colibrì volava verso le fiamme. Un sovversivo.
Un suicidio che non andava per niente a genio a quel genio del re leone e alla sua scorta: se quell’uccelletto lanciava la moda dell’harakiri a loro non rimaneva più carne fresca da (far) predare.
Un ringhio quel “dove vai!” quando il colibrì gli passò sulla criniera regale.
Una grassa risata in risposta alla risposta dell’uccellino.  E come dargli tolto questa volta al re.
Il colibrì si era tuffato nel fiume mentre tutti giacevano inerti ed ora stava volando sulle fiamme. A lasciar cadere la goccia d’acqua raccolta durante l’apatia generalizzata.

Ottimo, bravo, da applauso.
Come pensava di riuscire a spegnere le fiamme quella pulce volante? Da solo oltretutto? E dai.
Solo però non lo rimase a lungo.
Incurante di ironia scetticismo e sarcasmi vari, il piccolo colibrì si rimise al lavoro.
Giù nell’acqua, su nel cielo, dritto verso l’incendio, giù la goccia d’acqua sulle fiamme.
Da ovazione insomma. Non foss’altro per quel suo incedere cocciuto tra le fiamme e il fumo. Controcorrente come tutti i supereroi che si rispettano. Quelli dei fumetti, giusto lì se ne trovano ancora.
Solo che i fumetti nella Savana se li erano passati un po’ tutti i piccoli. Sottobanco.

E uno ad uno, forti dell’esempio, si associarono all’uccellino. Tronfi e fieri. Incoscienti insomma, di quell’incoscienza che ti scortica il pelo per l’irritazione perché lo sai, oh se lo sai, che prima o poi li devi imitare se non vuoi fare la figura del meschino.
Ma torniamo ai piccoli che i grandi sono sempre gli ultimi ad arrivare. Alla soluzione.
Un elefantino si staccò dalle massicce sottane della madre e si precipitò – oddio, con i suoi tempi – a dare il proprio contributo con il suo superpotere:  la proboscidina. La immerse dentro il fiume e aspirò, aspirò, aspirò. Per risputare subito dopo tutto sul cespuglio più vicino, spegnendo almeno lì quel fuoco inceneritore.

Senza nulla voler togliere al beccuccio del colibrì, grazie al cielo arrivò anche il beccone del giovane pellicano.  E poi il pelo dell’imberbe leoncino che lui inzuppò per benino e poi si scrollò di dosso. Accanto al fuoco. E il manto del tigrotto, lo zebrotto quasi ci si giocò le strisce, quelle nere, nell’avvicinarsi quanto più possibile alle fiamme, la gazzelletta fece quello che poté ma comunque non si tirò indietro. E il rinocerontino, la piccola antilope, la scimmietta, il leopardino. L’aquilotto ci arrivò dritto dai monti a dare una mano, in picchiata.
Tutti i cuccioli al lavoro, era una festa.
C’è solo da immaginarselo l’orgoglio che lampeggiava negli occhi delle mamme. Altro che quelle mezze calzette di maschi con i quali si erano accoppiate, grandi grossi e fannulloni. Pure codardi.

Tolsero ai piccoli tutti i bavagli e bavaglini che li intralciavano e gli si affiancarono nel pompare e sparare acqua. Ovunque.
Il re leone adesso più che sarcastico era indispettito.
E quella tigre c’era venuta pure dal bengala a biascicargli nell’orecchio tutta la vergogna della scena.
Apocalittica, un quadro da fine del mondo, qui si rischiava uno stravolgimento epocale.
E se poi si riempivano di grilli tutte quelle teste e testoline scellerate e si mettevano a manifestare per una parità di diritti e doveri nella gestione forestale? Oddio, e se manifestando e manifestando si fossero esaltati arrivando a pretendere tutte le sciocchezze bandite dal reame? Equità sociale, pace, tolleranza e cooperazione in luogo della vigente legge del potere, quello del più forte?
Niente, c’era da scendere in campo. Subito. E riprendere scena e controllo. E muti tutti, al lavoro e in fretta.
Al calare della sera, le stelle tutte accese, l’incendio era completamente spento.
Figurarsi se il re leone non si affrettava  ad indire immediatamente un gran festone per accentrarsi meriti ed onori con la nota arte del lisciare il pelo altrui per lucidare il proprio.
Commovente il suo discorso regale alla folla, il colibrì accanto a lui.

Dunque, questa la scaletta dell’encomio.
Colibrì eroe, cuccioli eroi, le femmine sono l’anima del focolaio, insieme si vince, una goccia d’acqua è preziosa, tante gocce d’acqua fanno miracoli purché veicolate e non sputate a caso, siamo un grande branco, è restando uniti che andrà sempre tutto bene.
E la chicca finale.
L’impegno a costruire un mondo migliore dove ci sia posto per tutti, niente più violenza, nessuna guerra. Insomma, tutti fratelli nel rispetto e nella convivenza pacifica. Quindi, se tanto mi da tanto in una giungla, tutti vegetariani.

Neanche il bradipo che questo velocista di intuito non è ha creduto ad una sola parola dell’ennesimo grande proclama del re, figurarsi gli altri. Leone e tigre che si passano l’aceto per insaporire l’insalatina? Ma per favore.
Poco male, ai proclami vuoti erano più che abituati.
A loro, ai piccoli grandi esseri, bastava lo scacco matto dato al re e ai capi tutti. Per pochi attimi ma a pieno.
Ah, dimenticavo l’ospite d’onore.
Il colibrì non ci pensò minimamente a raccogliere onorificenze e accettare promozioni e partecipazioni al consesso dei gran capi. Lui non ce l’aveva la stoffa del capo, lui era solo un leader.

E per continuare ad esserlo doveva rimanere libero. E volare alto.

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L'uomo col libro in mano e il cielo sulla testa di Alessandra Tucci

 


Ci sono tornata. Ho resistito due giorni, il terzo sono tornata. Dall’uomo che viaggiava con la mente. Indifferente al sordo tam tam del flusso quotidiano e immobile. Apparentemente.

Volevo sapere cosa leggesse. Volevo in realtà sapere perché leggesse. Sulla strada, sotto il cielo.

E magari offrirgli un qualche libro, ne ho infiniti, così da gratificare il mio sé sedicente benevolo, caritatevole. Quella carità che lui ha stroncato. Con gentilezza e con il sorriso, per questo ancora più spietatamente.

Gliel’ho chiesto, diretta e senza neanche presentarmi, si è sempre diretti quando si esita, diretti per stroncare l’indugio.

Ha alzato gli occhi verso di me, se dicessi cosa c’era in quel suo primo sguardo mentirei. È confuso il ricordo di questo primo contatto visivo. O ero confusa io. 

Sicuramente però non c’era diffidenza. E neanche avversione. Non c’era neanche sorpresa, solo pacatezza nel dirmi che leggeva qualsiasi cosa trovasse nella spazzatura. Sì, perché i libri occupano spazio, chiaro, si buttano per liberare posto. Al vuoto che lasciano.

Era pacato, questo, e anche un po’ evasivo sulla sua lettura. Io un caterpillar. Aveva un libro tra le mani, un altro era posato accanto a lui. Sopra un piccolo mucchio di giornali, le sue coperte.

Volevo sapere. Dove si rifugiasse dentro di sé, tra quali pagine si rinchiudesse. A non vedere. O forse a vedere di più.

“Sì, certo. Ma cosa le piace leggere, cosa leggerebbe se potesse scegliere?” .

Come se potesse. Come se potesse scegliere.

“La scienza. Mi piace leggere di scienza”.

Basita. E bene mi stava. Ero già pronta a rifilargli il thriller che avevo avuto in regalo e che non amo particolarmente. Non amo i thriller, affatto. Era chiaro che neanche lui. Niente ottimizzazione caritatevole dunque, regalare un qualcosa che non si apprezza a chi la apprezza per intendersi. Il sempiterno riciclo dei regali non graditi.

Tutto ciò che parla di scienza affascina anche me, per dar seguito e concretezza al mio guizzo altruistico avrei dovuto quindi accettare io per prima una privazione.

O comprargli un libro per non dargli uno dei miei, ma non sarebbe stata la stessa cosa.

 

Chiaramente non gli ho risposto, ho preso tempo per darne a me nel decidere e sono andata oltre. Sempre più a fondo. Indiscreta, eccessiva forse, invadente. Quello che sono quando voglio arrivare davvero. Alla persona.

“Da dove viene? Perché è in queste condizioni?”.

Quali condizioni poi? La sua eleganza interiore vestita di stracci in un mondo di completi griffati che portano a spasso anime sempre più slabbrate?

Mi ha guardata. Questa volta ha esitato davvero, vistosamente. Anzi che non mi ha risposto a tono, il tono dell’eccess(iv)o. E non si è rinchiuso in sé.

“Vengo dal nord Europa. Mi è stata tolta la dignità, ho perso la voce. E sono qui.”

Cosa gli rispondi a parole così che possa avere un senso? Ho taciuto, grazie al cielo. Ed ho aspettato. Lui ha continuato. Lo sguardo su di me ed oltre, sembrava vagasse, irrequieto e calmo, era dentro l’ossimoro.

“Mi vergogno, sa. Dovrei essere nella mia terra, tra la mia gente, a vivere per migliorarla, dovrei migliorarmi. E invece sono qui, in Italia, sulla strada, ed è colpa mia. Mi sono arreso.”

 

Figurarsi se a questo punto, davanti a tanta costrizione, non mi usciva un “non si tratta di colpa, non c’è niente di cui vergognarsi”  bello, lindo, ciclostilato. E tanto banale da essere banalizzante. Dell’esistere.

In quella sua saggezza che oramai non faceva più niente per nascondersi, l’uomo non mi ha risposto. È andato oltre. Mi ha guardata, ha parlato e mi ha lasciata di sasso. Un’altra volta.

“Sa, dovremmo essere tutti nudi mentre parliamo, questo è l’unico modo per un vero dialogo.”
Ha esitato qualche istante, nei suoi occhi si è accesa una luce divertita nell’incrociare i miei. Infognati nella perplessità. Si è mosso a compassione, lui. Ed ha continuato.

“Vede, se in un qualsiasi dialogo ci presentiamo ognuno con i propri abiti non si ha un dialogo vero. Se vedono me, con questi vestiti addosso, pensano tutti, subito: “Mah, questo è un barbone, quello che dice non vale niente”. Se invece si presenta un generale con la sua bella divisa e tanti stemmi allora sì che vale quello che dice. Questo non è parlare, non è dialogare, non c’è scambio.”
Mi prude il naso ogni volta che comincio a commuovermi, non so perché. Comincia a prudermi il naso e pian piano gli occhi si fanno lucidi. Li ho alzati fissandoli sulla gente che passando ci dribblava, ero accovacciata di fronte a lui, non volevo vedesse quella mia penitente ammissione di colpa. Perché tutti ragioniamo così. Non come lui, no, tutti ragioniamo per modelli. E divise. Tutti ben vestiti. Sempre predicando, ci mancherebbe. Che l’abito non fa il monaco.

“L’altro giorno mi si è avvicinato un uomo e diretto mi ha detto nella sua lingua, la lingua degli zingari «Che stai facendo?» Non si fa così, non è così che ci si rivolge alle persone”.

Non è che questo era un riferimento, neanche tanto implicito, al mio approccio iniziale? Non nella lingua degli zingari, certo, non la conosco, più specifica nel chiedere cosa stesse non facendo ma leggendo, ma comunque più o meno la stessa cosa. Non ho chiesto per non sentirmelo dire. L’ho lasciato finire.

         “Quando ci si rivolge ad una persona si dice innanzitutto «buongiorno», la parola più bella del mondo. Poi si dice io sono tizio, ci si presenta. E poi semmai si chiede cosa sta facendo. E non nella propria lingua, in lingua italiana perché qui siamo in Italia. È così che si fa, è così che si avvia una conversazione”.
Sì, un riferimento c’era, pure chiaro. E bene mi stava. Ancora una volta ho sterzato e cambiato strada. Ne andava del mio orgoglio rimpicciolito. Orgoglio, la dignità è ben altra cosa.

“Come si trova in Italia, ce l’ha qualche aiuto, un qualche supporto?”.

Almeno un motivo di vanto, uno. Se non il personale, quantomeno che fosse orgoglio nazionale. L’Italia brilla nell’assistenzialismo, ce l’ho nel cuore le parole del Manzoni, buone o buoniste non mi è ancora chiaro, ma tant’è: “Il nostro è un popolo buono perché l’italiano, sotto la divisa o l’abito, è e rimane un uomo. E l’uomo fuori da ruoli è umano.”

“Sì, sempre. In Italia ci sono tante strutture di carità. Il martedì e il giovedì portano da mangiare alla stazione termini, gli altri giorni li trovi, si fermano. Sì, ci sono tante strutture di carità e funzionano. Strutture, però, sempre strutture, molto poco le persone.”

Mai la fortuna di imbattermi in un parlare semplice e lineare, ero incappata in un filosofo. Di strada. Le strutture di carità non sono forse fatte di persone? Gliel’ho chiesto, non è che poteva vorticare nell’incomprensibile come gli pareva. E all’infinito.

“Sì, certo, dentro le strutture. Sono tutti dentro la struttura di carità, ti danno da mangiare, le coperte, ti chiedono di cosa hai bisogno, uomini dentro una struttura di carità, dentro un ruolo, è da lì che si muovono. Difficilmente si vede la persona, difficilmente ce la mettono la persona, quello che sono, quello che hanno dentro. Ma è della persona che si ha bisogno, è con la persona che la nostra persona può costruire un dialogo. Non la mostrano, non la si vede mai. Quasi mai.”

 

Gelata. Cementificata, agghiacciata. Un sasso, un cubetto di ghiaccio. Dentro un ruolo ingessato anch’io? Ingessata io? Ho cominciato a chiedermelo frenetica, ma per capirlo avrei dovuto ammetterlo. E di ammissioni con me stessa ne ho già una lunga lista da vagliare ed effettuare, questa per il momento intendevo fermamente risparmiarmela. Ponendo la domanda principale per rianimare per quanto potessi il mio ego sedicente caritatevole ormai moribondo. E chiudere il cerchio.

 “Di cosa ha bisogno? Posso fare qualcosa per lei?”

Quasi temevo la risposta, da quest’uomo era ormai chiaro che poteva arrivare di tutto.

Non mi ha risposto, non nell’immediato. Si è tolto il cappuccio della giacca, si è tolto il cappello, si è battuto la testa con la mano. E mi ha detto, testuale.

“Ho bisogno di sapienza.”

Che gli rispondi a uno così, a parole così?

“Quella ce l’ha già, non posso dargliela io e non serva che gliela dia, ce l’ha già. Insieme alla saggezza.”

E questa volta le parole mi erano uscite dal cuore, davvero da lì, senza filtri buonisti, nude e crude. Come lui vuole si sia quando si dialoga. Mi aveva appena insegnato a dialogare.

“Un libro se vuole, se può. Lo leggo e quando non ho altro lo uso per dormirci sopra, almeno qualcosa tra me e questa strada sulla quale mi ritrovo.”

Uno stillicidio questa conversazione, quest’uomo stillava continui colpi al cuore. E alla coscienza.

Ho spostato gli occhi sul libro posato accanto a lui.  Lui l’ha preso, me l’ha mostrato. “Cardinali e Cortigiane” il titolo, non ho fatto in tempo a leggere il nome dell’autore. Ho accennato un sorriso, lui l’ha raccolto e gli ha risposto.

“L’ho trovato nella spazzatura. Lo leggo perché anche questo loro è un modo di essere uomini. Un altro modo di essere uomini, solo un altro modo.”


 Non solo l’empatia nello scambio, quella nuda e autentica, quest’uomo mi aveva appena mostrato la strada per essere. E far essere. Se stessi, il proprio prossimo. Al di là di ruoli, abiti, tuniche, divise, clichè, oltre stereotipi, torti e ragioni, virtù e perversioni. Liberi di essere. Liberi di far essere. È questo essere umani, è il coraggio di essere. A prescindere.

Nota sull'Autrice

Donna, scrittrice, giurista. Di fatto, una mitragliatrice inesauribile di parole. Ma consapevole del loro potere e sempre più intenzionata ad usarlo per aprire prospettive anziché chiudere orizzonti, liberare essenza e sogni senza languire dentro pozzanghere di cielo, creare sinergie a scalzare egoiche ragioni, ampliare la realtà invece di restringerla. E potenziare l'immenso e troppo poco conosciuto potere dell'essere umano. Presentandolo al mondo.
Al centro dei miei scritti, da Rosa Stellata a La Luce Della Follia fino all’ultimo romanzo, tratto dalla vera storia di Mario Monterosso, Le Sei Corde Dell’Anima (CTL Livorno Editore), sempre l’essere umano e il suo potere di essere chi vuole e costruire la realtà che sente a sé assonante e con l’altro sinergica. Se solo decide di usarlo accettandolo, accettando gli infiniti chiaroscuri dell’Essere. Accettandosi.
Siamo pronti a riempire i nostri cassetti emozionali e neuronali di parole dal sapore buono perché autentico ed ampliante? Pronti ad affilare gli strumenti da lavoro di mente anima e cuore? Lo sappiamo che tendiamo tutti all’espansione e che il fine è l’armonizzazione dei diversi infiniti e non l’appiattimento generale? Che siamo esseri saggi perché incessantemente saggianti, tutti? Partiamo? Insieme?