Pietralata: Dal margine: voci di un'altra scuola di Flavia Pelliccia

vecchi palazzi

Può apparire singolare la scelta di iniziare una piccola riflessione sul complesso tema della dispersione scolastica nell'odierno sistema dell'istruzione italiano partendo dal riferimento ad un romanzo, Un anno a Pietralata [1], datato 1968.
A spiegare questa circostanza concorrono sicuramente differenti ragioni e fattori.
Almeno due, per l'esattezza - non certo ponibili su uno stesso piano - ma che reputo giusto esplicitare in apertura del lavoro, perché, in effetti, essi costituiscono il sottofondo silenzioso, l'adagio che accompagnerà tutto il mio intervento.
Il primo fattore - benché sia spesso ritenuto “politicamente scorretto”, in un lavoro rivolto ad un contesto accademico, far riferimenti di questo tipo - è di ordine personale: diversi anni addietro, mi sono occupata, insieme ad altri tre colleghi, della realizzazione concreta di un progetto, a sfondo pedagogico-didattico e insieme sociale, situato nel cuore del V Municipio di Roma, territorio che comprende anche il quartiere di Pietralata.
Una risonanza emotiva, dunque, una consonanza che mi ha richiamato alla mente, per accostamento geografico, l'esperienza familiare di una vicenda per certi versi simile a quella vissuta dall'autore. Con due dovute differenze:

1) Non era il 1968 e lo scenario ed il contesto metropolitano in cui sorgeva il nostro progetto poteva sembrare molto cambiato, almeno in apparenza.
2) Non eravamo una scuola ma qualcosa che oggi potrebbe essere inquadrato nella proposta di un'altra “agenzia formativa” attiva sul territorio in questione.
Ed è proprio dal chiarimento delle discrepanze e delle analogia che corrono tra il contesto territoriale, sociale ed umano in cui si trovò ad operare negli anni '60 “lu Mastru”- come si faceva chiamare il maestro Bernardini, protagonista ed autore del libro in questione- e quello in cui prese vita il nostro progetto, che vorrei prendere le mosse.

a) Scenari di ieri
Pietralata allagata

Al tempo dei fatti narrati da Bernardini, Pietralata si offriva nell'immagine di una borgata liminare, “non diversa da quelle che Pasolini aveva presentato nei suoi romanzi e nei suoi film”[2]- come ebbe a dire Gianni Rodari, nella prima edizione del testo, datata, appunto, 1968. “Terra di confine”, dunque, punto di fine e di inizio di una crescente urbanizzazione che stava forzando la cinta storica della città, ridisegnando l'aspetto dei suoi bordi.
Pietralata, allora, andava popolandosi di sfollati, provenienti dal Sud Italia, che vivevano per lo più in baracche, a ridosso di poche case o complessi edilizi- come la scuola- mattonati ma spesso fatiscenti, in un ambiente ancora in parte vinto dalle risacche acquitrinose dell'Aniene, dove però si poteva indovinare il segno dell'inizio di un processo di speculazione edilizia che di lì a pochi decenni avrebbe acquisito la rapidità spaventosa e la ferocia- così spesso denunciate da Pasolini - che oggi è sotto gli occhi di tutti. I cenni di quel processo riposavano sulle impalcature dei cantieri che segnalavano lo stato embrionale dell'inizio dei lavori per la costruzione delle nuove case, destinate agli sfollati delle baracche, alla foce di aree ancora verdi dove, spesso, pascolavano le pecore.

L'impasto sociale ed i problemi che lì si trovò ad affrontare Bernardini non erano diversi da quelli cui, negli stessi anni, tentò di dare una risposta l'esperienza condotta da Don Lorenzo Milani con i suoi ragazzi di Barbiana, vicenda ancor oggi ampliamente citata ma di cui sembra facciamo fatica a raccogliere ed attualizzare la lezione fondamentale, quella che i ragazzi di Barbiana pronunciarono nella forma di una denuncia accorata e che giunge, a noi, nella forza inscalfibile di un monito che racchiude, ancor oggi, una scheggia di drammatica attualità.

Bernardini, come Don Milani, si trovarono negli anni '60 ad affrontare problemi che parlavano dell'alto tasso di analfabetismo ancora disseminato su tutto il territorio italiano, dell'incidente presenza di una mancata scolarizzazione di base in molte aree disastrate del paese, della necessità, dunque, di armarsi di strumenti pedagogici efficaci e di una pratica didattica capace di innescare un processo di apprendimento che, in quel momento, si dava, come obiettivo primario, quello di guadagnare terreno all'interno di una lunga marcia per l'acquisizione minima della lingua italiana.
Nel caso di Bernardini, tale esigenza prendeva vita nel cuore di una borgata in cui i “nuovi arrivati” parlavano dialetti tra loro incomprensibili, configurandosi come un insieme di voci che era lì a testimoniare quanto ancora - a distanza di quasi vent'anni anni dal contesto del primo dopoguerra italiano - il processo di costruzione di un'unità linguistica e culturale, nel nostro paese, avesse dei nervi scoperti, e rivelasse tutta la sua complessità proprio nei contesti marginali di borgate in cui, forti e tenaci, si mostravano i segni della disuguaglianza socio-culturale e della loro soggiacente indigenza economica. La borgata di Pietralata, dunque, era “una molteplice scoperta delle diverse Italie”[3], come si espresse Italo Calvino nella sua Prefazione al “Sentiero dei nidi di ragno”[4], nel raccontare la varietà dei paesaggi umani e linguistico-dialettali che furono il germe da cui attinse la propria materia tutto il nostro neorealismo. Quando giunse a Pietralata nel '60, il maestro era consapevole che, nel contesto di una società che cominciava a cambiare, adottando stili di vita metropolitani, il non saper parlare che il dialetto - così carico, ai suoi occhi, di una potenza espressiva irrinunciabile ma sempre più frequentemente ritenuto “inadatto” ai nuovi contesti di vita - sarebbe potuto diventare un limite per ragazzi e adulti che abitavano in quelle zone, configurarsi, per loro, realmente come una gabbia, diventare uno degli elementi maggiormente in gioco nel processo di esclusione sociale. Ma non era solo un fatto linguistico, no. La sfida di Bernardini, come quella di Don Milani, fu a ben vedere una sfida lanciata all'esclusione come forma di ingiustizia sociale, condotta sul terreno che gli era più confacente e che, ai loro occhi, sarebbe stato quello da cui poteva e doveva provenire il cenno deciso di un'inversione di tendenza: la scuola. Fu una battaglia pedagogica a tutto tondo per dotare i ragazzi di quegli strumenti culturali che avrebbero potuto costituire l'arma di una forma di riscatto.

Perché, in effetti, l'esclusione sociale non si consumava solo “fuori” ma si perpetrava e si rafforzava all'interno dell'universo scolastico: all'indomani di una discussione che avrebbe portato nel '63 ad innalzare la soglia dell'età dell'obbligo scolare - approvando una legge in favore della scuola media unificata - e ad aprire, formalmente, le porte ad un processo di scolarizzazione di massa che avrebbe dovuto significare “diritto ad un eguale possibilità di istruzione ed alfabetizzazione per tutti” - cioè democratizzazione della scuola stessa -, la realtà vissuta all'interno delle mura degli edifici scolastici, raccontava un'altra scuola, una scuola in cui “esclusione” e “selezione” sembravano quasi delle parole d'ordine, strette in un potente sodalizio. Così ricorda Rossi-Doria, nel suo contributo al volume “La scuola diseguale”, scritto a proposito del tema della dispersione scolastica di ieri e di oggi, affermando che, allora, l'esclusione scolastica “derivava da una selezione sostanzialmente fondata sul censo, sull'appartenenza a classi subalterne”[5]. In altre parole, essa poggiava su una disuguaglianza sociale ed economica che non solo la scuola non contrastava ma che veniva “esplicitamente rivendicata da chi era impegnato nel sistema d'istruzione pubblico”[6].

Ed è a questo meccanismo di selezione sociale consumato all'interno dell'istituto scolastico che Bernardini dichiarò guerra, raccontandocelo, nel suo libro, nei termini di uno sforzo continuo ed attento a non lasciarsi vincere dalle parole e dai moniti delle insegnanti sue colleghe - espressione di fatto di un pregiudizio diffuso e dell'atteggiamento imperante nelle aule scolastiche di allora - che consideravano i propri alunni e le loro famiglie come spacciate, ritenendo che “perderne uno” significasse, infine, liberarsi di un peso, di una nota stonata all'interno dell'armonia confezionata della propria organizzazione didattica. Come a dire, non solo esclusione dalla scuola, ma esclusione della scuola.
E vengo, così, immediatamente a spiegare la seconda ragione che mi ha spinto a prender le mosse dal testo in questione, una ragione che oserei definire di ordine storico-culturale, e che vorrei affidare alle parole usate da Tullio De Mauro, in apertura della Prefazione all'ultima riedizione del libro (in cui esso si trova accorpato ad un altro romanzo, scritto dallo stesso Bernardini, pochi anni dopo):

“Un anno a Pietralata apparve nel 1968. La scuola nemica nel 1973. Oggi questi due libri di testimonianze autentiche sono ancora preziosi non solo per il loro intrinseco valore umano e letterario, ma perché ci aiutano a recuperare una storia che, col peso non eliminato della sua eredità, agisce ancora sul presente del nostro Paese. È una storia che è stata a lungo soltanto triste e squallida e che non amiamo conoscere: è la storia dei rapporti tra la società italiana e la sua scuola.”[7]
Parole importanti, che mettono in risalto la fibra tenace che, percorrendo l'intera vicenda storica del nostro paese, ha legato, sin dalla sua origine, la scuola alle forme concrete dell'esclusione sociale, e che ha mostrato il suo volto più crudo proprio in quei contesti territoriali in cui, da sempre, la penuria culturale non faceva che accrescere un dato di povertà materiale e sociale. Esse, cioè, ci inducono ad analizzare quel meccanismo di selezione sociale che ha trovato, proprio nella scuola, il suo terreno più solidale, rendendola l'operatore materiale di riproduzione di una disuguaglianza di cui l'immagine della Pietralata, descritta da Bernardini, mostra gli accenti più aspri e drammatici.
Il pamphlet di Barbiana e dei ragazzi di Don Milani si scagliò contro questa esclusione col gesto radicale di una denuncia a quel modello di scuola. E lo fece inventando una scuola per chi, dalla scuola, era stato cacciato, o per chi a scuola non ci andava:
“Così è stato il nostro primo incontro con voi. Attraverso i ragazzi che non volete.
L'abbiamo visto anche noi che con loro la scuola diventa più difficile. Qualche volta viene la tentazione di levarseli di torno. Ma se si perde loro, la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati. Diventa uno strumento di differenziazione sempre più irrimediabile.”[8]
Bernardini combatté la stessa battaglia, agendola, però, “dall'interno” dell'istituzione scolastica, provando, cioè, a trasformarla, seduto con i suoi alunni tra i banchi di quell'edificio decadente di cui provò a forzare l'ossatura rigida e ciecamente selettiva, nella convinzione che la scuola fosse non solo un osservatorio privilegiato da cui raccogliere elementi preziosi, tanto sulla realtà territoriale che gli era attorno, quanto sulla società italiana del suo tempo; ma che essa fosse al contempo un elemento operante all'interno di una diagnosi possibile sul modello di società presente e, insieme, il perno da cui poterne scardinare gli aspetti più stridenti e ingiusti.
E lo fece rivoluzionando il modo stesso di “fare scuola”, “adottando un differente modo di insegnare”[9], capace di aprire la sua scuola alle istanze peculiari del preciso contesto sociale e territoriale in cui essa si situava, e a cui, a suo avviso, non era possibile rimanere sordi.
Il lavoro non fu semplice: molti dei bambini che aveva in classe li aveva dovuti strappare ad uno ad uno alla “strada”, cercando, al contempo, di lavorare alla costruzione di un “gruppo coeso” con quelli che erano presenti in aula ma che rischiavano continuamente di lasciarla - o meglio, che la scuola, così come era fatta, lasciava “disperdere”. Essi, della “strada”, portavano addosso abitudini, modalità e conflitti. Il suo fu un lavoro paziente di costruzione di uno spazio-classe che fosse, per loro, un laboratorio di apprendimento comune quotidiano.

Per far ciò rivoluzionò la didattica, sconvolse le norme rigide del modello vigente di una scuola pensata come un comparto isolato, rinchiusa in una bolla che la voleva impermeabile ad ogni riferimento al contesto esterno. Si fece fino in fondo “maestro di strada”, fuori e dentro l'aula, cogliendo, prematuramente rispetto ai tempi correnti, l'irrinunciabilità di un'apertura e un profondo legame che la scuola doveva avere con le peculiarità del contesto territoriale in cui si trovava. Conquistò pazientemente la fiducia dei suoi ragazzi, insegnando loro a riconoscerne il valore sommo, educandoli a viverla, tanto nel rapporto singolare che ciascuno di loro stabiliva con lui, quanto nella costruzione di relazioni di solidarietà reciproca e mutua assistenza, che essi andavano imparando a strutturare tra di loro.
In altre parole - dice ancora bene Tullio De Mauro - egli mostrò che una “una scuola nuova, sollecitante, profondamente democratica, era possibile anche nelle allora disastrate periferie romane”[10].
E se è vero che esiste “un appuntamento segreto tra le generazioni”, come soleva dire Walter Benjamin, le parole usate da De Mauro, a proposito della Prefazione al testo Un anno a Pietralata, contengono un invito prezioso ed irrimandabile. Ci chiedono anzitutto di saper rileggere quella “storia che non amiamo conoscere”[11] - e che, pure, ha caratterizzato “i rapporti tra la società italiana e la sua scuola”[12] - alla luce di un presente che ancora ne contiene una ferita aperta: esse ci chiamano a una comprensione dei modi e delle forme concrete in cui, tale storia continua a premere sul nostro presente, agendo nella nostra società e nella nostra scuola.
Ma esse ci assegnano anche un altro compito, - sembra dirci De Mauro. Contengono la forza di un messaggio ulteriore, la scintilla, ancora preziosa, di una testimonianza - emblematica ed esemplare - che ci chiede, oggi, di continuare a riflettere sul ruolo da assegnare alla scuola, all'interno della società. A cogliere, cioè, se e come la scuola debba riconfigurarsi, oggi, per offrirsi quale ingranaggio di un'inversione di tendenza rispetto alle persistenti disuguaglianze che vigono nella società attuale.
Bernardini lo fece assegnando, alla scuola, un ruolo educativo preciso, ovvero, conferendo, uno specifico senso - che oserei definire politico, nell'etimologia che questa parola contiene - alle sue finalità pedagogiche ed assegnando, alla pedagogia, un carattere sociale forte, in nome di una battaglia all'ingiustizia sociale, che egli assunse in prima persona, e combatté partendo dai banchi di scuola.

Con la potenza che forse solo la narrazione sa avere, Bernardini ci mostra come la scuola, di ieri e di oggi, è specchio della società in cui vive e di cui raccoglie istanze, riproduce principi e storpiature, assumendo, spesso, le sue stesse forme di irrigidimento e cristallizzazione. Una scuola che - ci mette in guardia De Mauro - miete, ancora oggi, le sue vittime privilegiate nei contesti in cui è forte il regime di esclusione e disuguaglianza sociale.
Ma se, al suo interno - sembra volerci tramandare l'insegnamento di Bernardini - essa non contenesse altra possibilità che quella di farsi cinghia di trasmissione del liscio decorso di un presente che rivela ancora una pagina gravida di disuguaglianze sociali, se, cioè, la scuola non avesse il potere di esercitare, nella e sulla società, una forza di attrito, allora essa non sarebbe più scuola, come gridavano appunto già allora i ragazzi di Barbiana.
Nella vicenda di una singola scuola, di un preciso modo di viverla, di uno specifico contesto territoriale, quindi, Bernardini ci ha restituito l'immagine esemplare di un'altra scuola possibile. Ed allora, è raccogliendo i suoi sforzi, rilanciando il dado della sua sfida, che dobbiamo tornare a pensare alla scuola di oggi e al delicato rapporto che essa intrattiene con l'attuale società.
E lo possiamo fare ripartendo dai bordi in cui il suo terreno di coltura ci è apparso e ci appare ancor oggi il più desolante e desolato. Dai margini, cioè, di un contesto metropolitano di cui la Pietralata di Bernardini è un simbolo. 

Mercato Scoperto

b) Scenari di oggi

Adagiata ai fianchi della via Tiburtina, percorsa nella direzione di uscita da Roma, la Pietralata odierna si presenta nella forma di uno dei tanti quartieri che, come bocche di sfiato della sua concentrazione cementizia, si dispongono “a grappolo” sui due lati dell'arteria principale del quadrante Nord-Est della città, contribuendo a disegnare l'intelaiatura complessa di una zona altamente popolata e densamente cementificata.
Il suo paesaggio ha cambiato pelle: la tendenza all'isolamento sociale, caratteristica dell'odierna forma di vita metropolitana, sembra averne snaturato la fisionomia, stravolto l'immagine di borgata- di microcosmo regolato da leggi non scritte appartenenti, però, ad un universo sociale riconosciuto e riconoscibile - svuotandola dell'animosità che percorreva i suoi vicoli e si riversava nei suoi anfratti, carichi di tensione e di storie di vita.
Una sola cosa sembra aver resistito all'urto del tempo, mantenendosi ostinatamente intatta e richiamandoci all'eco lontana della narrazione di Bernardini: Pietralata pare non aver perso la sua vocazione ad essere margine.

Tale tratto duro del suo trascorso appare, però, ulteriormente esacerbato ed inasprito dalla tangibile rarefazione di quei luoghi e spazi, destinati a momenti di socialità condivisa, che essa, pure, conteneva, cosicché, la sua immagine odierna restituisce l'immediata impressione visiva di una desolazione umana che ha forse reso soltanto più acuto quel meccanismo di esclusione, che essa aveva già inscritto nelle carni della sua storia passata.
Ai tempi de ‘lu Mastru', infatti, nonostante le varietà regionali e linguistico-dialettali cui ho accennato prima, Pietralata manteneva la fibra tenace di una borgata carica dei segni di un radicamento condiviso: essa conteneva la vitalità di un tessuto umano, dalle sembianze omogenee, capace di testimoniare la forte presenza dell'identità collettiva con cui erano gli stessi abitanti delle sue vie sgangherate a rappresentarsi, e con cui essi sapevano e solevano narrarsi.
“Voci di un altro tempo della storia sociale”[13], di situazioni in cui:
“[..] si subiva l'ingiustizia di restare poveri come i propri genitori o di diventare operai da contadini che si era. Ma si restava entro un'appartenenza che era fatta di lessico ricco, sapere pratico e identità simbolica, sapienza millenaria e volontà di riscatto collettivo”[14].
Oggi, l'immagine imponente ed asfissiante del centro commerciale, stagliato sulla sua porta di accesso, e le file dei suoi palazzoni, stesi sul nastro grigio dell' unica via maestra, sembrano aver cancellato la memoria viva di quegli spazi collettivi, disciogliendo un passato di cui non c'è più traccia. Cosicché, il lamento funebre che Pasolini aveva affidato alla fragile immagine della sparizione delle lucciole, sembra essersi posato, come un velo, sulle sue membra, con la forza e la fatalità di un presagio: essa è diventata una della tante periferie anonime di un contesto urbano ormai straripato.
Ed è a partire da questo scenario che tornerei a rivolgermi al progetto che mi ha visto direttamente impegnata nello stesso contesto territoriale, di cui anche Pietralata fa parte, nel V Municipio .

Precisamente, il progetto prese concretamente vita in quella regione ancor più periferica dell'odierna Tiburtina che sorge nell'area terminale del suo corrispettivo asse metropolitano.
Si sviluppò, cioè, in un luogo fisico contenuto all'interno del complesso del Parco regionale di Aguzzano, sul finire di Via Casal dei Pazzi - strada principale che attraversa il corpo di un'altra periferia del V Municipio, Rebibbia - collocandosi, precisamente, nel punto di fuga in cui quel quartiere si volge su di un'area che, per posizione, si perde oltre la sua soglia estrema: stagliata a ridosso di zone reputate “ad alto rischio” di delinquenza, essa disegna una regione in cui si apre ad un paesaggio umano e sociale di non facile lettura. È, infatti, la zona in cui convergono i “titoli di coda” di tre quartieri contigui, assai differenti tra loro per storia, connotazione ed espressione del tenore di vita: da una parte, l'ultimo strascico del quartiere di Talenti, al suo interno per lo più residenziale e benestante; dall'altra, la coda di altri due quartieri ancor oggi fortemente connotati nell'immaginario comune: San Basilio, storicamente considerato uno dei luoghi simbolo delle “periferie disagiate” del versante Roma Est, episodicamente attenzionato ed additato come emblema dei quartieri ad “alto rischio di criminalità” connessa ad un persistente stato di indigenza economica e alle sue materiali forme di degrado; e Ponte Mammolo-Rebibbia, anch'esso considerato risacca di un malessere socio-culturale connesso ad una persistente depressione economica. Luoghi in cui la realtà di una vita ancora difficile si mescola al peso di un retaggio storico che sembra gravare su di loro come uno stigma, un marchio inscalfibile, quasi che la ricorsività delle vicende e delle situazioni reali di degrado che vi si consumano, assuma, in essi, il volto duro di un'imposizione, una condizione, un destino sociale di esclusione, che li tiene “ai margini” di un terreno di visibilità da cui, talvolta, sembrano ricacciati fuori accidentalmente, nell'episodica circostanza di un evento scabroso che li risveglia alle cronache dei giornali.
Io e i miei colleghi, ci trovammo dunque a lavorare in un contesto del tutto particolare, in cui l'incontro di realtà tanto diverse crea una “zona grigia” che non è nessuno dei tre quartieri menzionati, ma il loro punto di tangenza e che, all'oggi, racconta la presenza di almeno due realtà socioculturali fortemente diseguali, che pure coabitano, distribuendovisi a “macchia di leopardo” e costruendovi la densità di un tessuto “poroso”, non facilmente riassorbile in un'inquadratura unitaria ed immediatamente percepibile, né disponibile ad essere raccolto in una lettura univoca ed omogenea. È una “terra di confine”. Un luogo - non luogo in cui due realtà diverse - la Talenti “bene” e i quartieri “spacciati” - si guardano da una prossimità che resta insondabile.
È in quest'area dal carattere bifronte e dall'identità culturale e sociale eterogenea che ha preso corpo l'esperienza del mio incontro con tutti i volti dell'odierna dispersione scolastica.
Stazione della Metro

Ed è proprio lì, in quel territorio “cerniera”, per due terzi accerchiato da periferie ancor oggi ritenute “difficili”, che ho imparato a cogliere la fibra resistente che ancora lega esclusione sociale e dispersione scolastica, come molle di un meccanismo circolare che si autoalimenta vorticosamente e pare difficile da spezzare.
Ma è in quello stesso contesto che ho compreso che la dispersione scolastica, oggi più che mai, è un fenomeno magmatico, sottile, un cerbero dalle mille teste che può presentarsi sotto molti aspetti ed ha intensità differenti, e ho imparato che se, certo, essa continua a trovare il suo terreno privilegiato all'interno di quei contesti territoriali in cui, alla povertà economica, si accompagna un degrado urbano, una povertà di stimoli e di spazi aperti alla socialità, il suo rischio, però, si annida e si estende ben oltre i confini di quelle periferie in cui l'esclusione sociale continua ad essere una realtà permanente.

Se mi sono soffermata a lungo nel descrivere le peculiarità di tale contesto territoriale e sociale è perché fu proprio a partire dall'osservazione attenta della complessità in cui ci trovavamo effettivamente ad operare, che sentimmo la necessità, quasi l'urgenza, di ampliare sin da subito l'impianto dell'idea progettuale che avevamo avuto in origine, e calarla in un terreno dal respiro sociale più amplio, dandogli, infine, un' impronta fortemente connotata.
Originariamente, infatti, il progetto prevedeva l'ideazione di un “centro didattico” a sostegno di quei ragazzi in età scolare - soprattutto adolescenti - che, provenienti da realtà familiari, socio-culturali e scolastiche di tipo diverso, mostravano, ciascuno a suo modo, evidenti difficoltà nello studio ed erano accomunati dalla difficoltà economica di dotarsi di un sostegno o aiuto extrascolastico di cui pure mostravano il bisogno. Il progetto nasceva, perciò, dall'incontro di due concrete istanze che ci sembrava potessero trovare, in esso, una risposta unitaria. La nostra, di giovani laureati precari- entrati in contatto nel corso delle numerose occasioni di confronto, maturate sul fronte dei percorsi e delle battaglie sociali che si stavano dibattendo, allora, in quell'area di Roma e ci vedevano attivi; da anni, singolarmente impegnati sul terreno dell'insegnamento informale e desiderosi di provare ad avviare, in esso, un percorso di autonomia materiale meno discontinuo e convalescente dei precedenti, condividendo la maturazione di un'esperienza più solida che avesse una vocazione professionalizzante. E l'istanza di un territorio, in cui forte appariva la presenza di ragazzi, le cui vicende, storie e vissuti differenti mostravano, tutte, il dato immediato di una palpabile difficoltà nello stare al passo con gli standard e le prestazioni imposte dal modello di programmazione scolastica in auge nell'impianto della scuola odierna e la cui richiesta esplicita - volendola racchiudere in una formula - poteva essere, dunque, sintetizzata nei termini di una “domanda di sostegno” che si muovesse in tale direzione. Il “centro didattico”, ci sembrava allora il naturale terreno di incontro di queste due esigenze.
Ci costituimmo in realtà associativa e cominciammo, così, a lavorare alla costruzione materiale del nostro centro, appoggiandoci ad uno spazio in disuso fornitoci da un'associazione che da anni gestiva la “Biblioteca - centro di cultura ecologica” risiedente nel Parco di Aguzzano.

I ragazzi cominciarono a venire. Da Talenti, da San Basilio, da Rebibbia. Erano ragazzi dal retroterra e dalle storie familiari, sociali e scolastiche diverse, ancora inseriti, per quanto a fatica, nel percorso scolastico: alcuni ripetenti, altri con carriere accidentate, altri ancora semplicemente in difficoltà all'interno di un pur 'regolare' - ma comunque sofferto - svolgimento dell'iter scolastico.
Sovente, si presentavano con amici, per lo più provenienti dalle vie più prossime di San Basilio o di Rebibbia. Ragazzi che, quasi sempre, “rimanevano fuori” perché a loro – dicevano - “studiare non interessava”, perché “la scuola l'avevano lasciata” o perché - ci raccontavano quando, infine, riuscivamo a fargli superare un primo momento di ritrosia, o di ostile diffidenza nei nostri confronti - avevano storie scolastiche dal tracciato ancor più disastrato dei nostri alunni loro amici. Quei ragazzi dall'apparente ostilità, in realtà, sembravano a disagio in quello spazio ricavato dalle stanze poste al piano superiore di una biblioteca che vedeva altri giovani, loro coetanei o di poco più grandi, studiare ai tavolini all'aperto e, spesso, divertirsi nel farlo insieme. Loro che faticavano a stare nel gruppo, loro che non riuscivano a “far parte di”[15]. Loro che ostentavano la loro immagine di “fuoriusciti” nella forma di un apparente senso di appartenenza all'onda di un comune destino che si infrangeva, invece, fragile, sulla crosta dura della ferita della loro personale vicenda familiare e sociale - consumata nell'ombra di un vissuto privato, per loro ingombrante ed incomunicabile. Essi, mostravano, al fondo, un profondo senso di solitudine e una sensazione di sconfitta che la loro realtà di “esclusi” dall'ambiente scolastico non faceva che confermargli.
Una vicenda non troppo diversa da quello che, anni dopo, ho ritrovato nei racconti di molte delle storie e dei vissuti dei ragazzi appartenenti al progetto Chance di Napoli - di cui ho avuto il privilegio di conoscere da vicino diversi operatori - esemplarmente spiegato nelle parole con cui Marco Rossi-Doria sottolinea la necessità di raccogliere quel “disagio emotivo” dei ragazzi provenienti dalle “zone di forte esclusione sociale e culturale”[16], nello sforzo continuo di avvicinarsi al punto di osservazione di “chi oggi, a scuola, non riesce a starci”[17], per cogliere quanto, “ancor più di quanto non accada già a tutte le persone in crescita”[18], “gli esclusi di oggi hanno meno parole [di quelli di ieri ]ed il loro grido, quando c'è, viene assorbito nel generale vociare” di una realtà socialmente dominata da un “senso di omologazione dei modelli di riferimento legati all'apparenza ed al mercato”[19]. Ad “averli privati della possibilità stessa di avere un'identità sociale”[20] , dunque - dice Rossi-Doria -, contribuiscono, tanto l'influsso mediatico, quanto l'assenza di spazi per la socialità, propria dei contesti degradati da cui derivano.
Ma i ragazzi tornavano. Fortunatamente tornavano.

E noi capimmo che dovevamo cogliere un'occasione. Che per farlo, però, dovevamo creare una stretta sinergia nel nostro gruppo di insegnanti, fornire una forte impronta pedagogico-sociale, quale cornice del nostro progetto, e tradurla, poi, in una concreta azione didattica. E dovevamo farlo a partire dai ragazzi che si erano già rivolti a noi. Perché essi, tutto sommato, mostravano qualcosa che non li rendeva troppo diversi dai loro amici “fuori binario”. Gli uni e gli altri portavano, al fondo, un'inquietudine simile.
Capimmo che anche i nostri si facevano portatori di una richiesta più profonda, un'istanza inespressa molto più sottile della semplice richiesta di aiuto didattico ma, insieme, non scindibile da essa. E che era tale richiesta muta a tenerli, incerti, su un filo, un fragile bilico che li avvicinava pericolosamente al destino dei loro amici. La loro voce testimoniava la presenza di uno stato d'animo diffuso che aveva assunto la forma di un generale senso di disaffezione alla scuola, una sorta di comune disamoramento, così radicato, in loro, da divenire tutt'uno con un senso di sfiducia personale. Esso si traduceva in un sordo malessere, un senso di arrendevolezza, un disfattismo che poteva assumere i toni di un'insofferenza rabbiosa, o presentarsi, invece, nella veste di una certa sfrontatezza e sfida, o, ancora, incarnarsi nella scorza di superficie di un apparente atteggiamento di apatia, di noia, di impermeabilità. Tale forma di disaffezione, qualora non li avesse direttamente spinti ad abbandonare la scuola prima del tempo - come già successo ai loro amici e coetanei che sostavano “fuori”, nell'area antistante le stanze del centro -, li condannava, però, certamente, a continuare a vivere l'esperienza scolastica nello stato di un perenne senso di frustrazione e insofferenza, non permettendogli di renderla un'occasione reale di crescita o un'opportunità di promozione sociale. Inutile dire quanto reputavamo questo dato drammatico e pericoloso. I nostri ragazzi erano ancora all'interno del percorso scolastico. Ma spesso si sentivano da esso squalificati e non reggevano le frustrazioni di un modello di organizzazione didattica che vivevano come asfissiante ed angusta e che, ai loro occhi, assumeva troppo spesso dei connotati dal tratto marcatamente inquisitorio, la postura rigida di un contesto pronto soltanto ad esaminare e selezionare, gestire tempi e richiedere standard, stabilendo il livello di prestazione accettabile, ma lasciando loro, di fatto, un senso di inadeguatezza che li avrebbe portati a spegnersi, a mollare, o a restare sui banchi, nel modo inerziale e passivo di chi accumula frustrazioni e non vuole curarsene, per non sentirle scottanti come un fallimento. Essi, piuttosto, si mostravano sensibili al fascino di un richiamo, una tendenza a seguire quella via già battuta dai loro amici, che, in effetti, esercitava, su di loro, una reale forza di attrazione, offrendosi nella spaventosa ma anche affascinante e allettante immagine di un'alternativa di “strada”che sembrava quantomeno serbare, ai loro occhi, la possibilità di farli essere nuovamente al centro, farli sentire, cioè, “protagonisti”.

Difficile opporre un diniego a questa esigenza di protagonismo di cui essi, pure, manifestavano il bisogno, ma che faticavano a recuperare sul terreno del percorso scolastico in cui si trovavano, ricacciandola nelle stanze di una sensazione confusa, inespressa, inconfessabile.
Capimmo che in questo bisogno di protagonismo si annidava il germe contenente l'aspetto più magmatico e insidioso di quel fenomeno che oggi chiamiamo dispersione scolastica. Anche questa sensazione inesplicita ne era, dunque, un'espressione. Ed era la sua espressione più “magmatica”- dicevo - perché rappresentava la forma più insondabile della dispersione, pur essendo così diffusa nell'universo variegato di quei tanti studenti che, posti di fronte a stimoli che non reputano tali, finiscono per non ritenerli alla loro portata e per convincersi, scegliendo spesso di cambiare scuola, di esser “inadatti” - aspetto che gli viene talvolta confermato da un voto che li rileva insufficienti, o che, invece, trova riscontro nella tendenza, sempre più frequente nell'odierno sistema scolastico, al ricorso a una diagnosi da DSA. E ne era l'aspetto più “insidioso”, perché è proprio nel punto in cui la sfera emotiva sfiora una cognizione mancata o una comprensione disattesa, che si producono un senso di noia e di apatia verso ciò che si studia, rivelatori, in realtà, sovente, di quell'insicurezza profonda e fragilità emotiva così tipiche di molti giovani adolescenti di oggi, e che - ancora nelle parole di Rossi-Doria - registrano “l'emergere di una nuova condizione adolescenziale, narcisista e fragile”, espressa in un'insofferenza che è assai più frequente degli effettivi abbandoni scolastici ma non per questo meno inquietante. Piuttosto preludio e segnale che non andrebbe sottovalutato proprio per la sua ingombrante e massiccia diffusione, per la sua capacità di cogliere e coinvolgere ragazzi e vicende apparentemente meno “emergenziali” di quelle legate a situazioni immediatamente ascrivibili a forme di disagio ed esclusione sociale tangibile.
È in questo senso che dico che fummo chiamati ad una riflessione profonda che ci portò a rinforzare le fondamenta del nostro progetto e ad ampliarne l'orizzonte, sempre più consapevoli che il suo terreno germinale era e doveva essere una finalità pedagogico-sociale forte, giocata, però, anzitutto sul terreno di un'impostazione didattica differente.

Capimmo, dunque, che proprio su questo terreno si disputava la partita di un possibile coinvolgimento attivo, capace di riaccendere, in loro, passione ed interesse, di coinvolgerli in prima persona, con la convinzione che, se non riuscivamo ad agganciare loro, a tenerli “dentro”, a farli “voler essere dentro”, non saremmo riusciti mai nell'impresa di recuperare almeno qualcuno dei loro amici là “fuori”.
Comprendemmo che, per costruire un rapporto di insegnamento/apprendimento che li chiamasse ad una presa di parola differente, dovevamo anzitutto stravolgere l'idea di lezione frontale ed individuale entro cui noi stessi eravamo abituati a muoverci: solo così potevamo sperare di sconfiggere, anche in loro, l'aspettativa di un modello associato all'immagine classica della “ripetizione privata”, formula che, ancora oggi, è troppo spesso la scuola stessa a consigliare implicitamente quale risposta compensativa ai limiti della sue forme di insegnamento canonico.
Dovevamo, dunque, far leva su un processo di socializzazione delle conoscenze e cognizioni acquisite che mettesse in gioco le loro passioni e abilità.

Proprio per questo ragionammo a lungo, insieme, sul modo di procedere con ciascun ragazzo, anche nei casi apparentemente meno problematici in cui la richiesta esplicita era limitata, formalmente, all'esigenza di un aiuto su una singola disciplina. Decidemmo di dirottare e far confluire le richieste di assistenza che ci sembravano analoghe a contesti allargati di microgruppi - di 3 o 4 alunni, al massimo - comprendenti ragazzi spesso afferenti allo stesso indirizzo scolastico ma provenienti da diverse scuole o classi. Cercavamo di far prender loro familiarità con cognizioni estrapolate dalle singole discipline, accostandole a qualcosa di più vicino alla loro percezione emotiva, al loro immaginario, rendendole, cioè, per loro e con loro più“maneggiabili”, presentandogliele, nella loro concreta duttilità semantica e nella loro spendibilità operativa, nell'atto stesso di condividerne discorsivamente insieme senso ed usi, o di schiuderne il senso negli usi. Li portavamo a decidere la selezione di quelle in cui riuscivano a rintracciare un nucleo forte, di una performatività basilare, “generativa di competenze”[21], stimolando, così, in ciascuno, la capacità di attingere dalle proprie risorse per fare, di esse, ulteriori risorse. Li inducevamo ad un'integrazione reciproca costante, tra loro, ad una spiegazione alternata, che implicava - consapevolmente o meno - l'uso di molte delle nozioni apprese, permettendogli, in questo modo, di appropriarsene, rendendole via via parte di un repertorio abituale di cui servirsi come di una cassetta per gli attrezzi, inducendoli, così, ad esporsi, nella convinzione che il gesto di “insegnare” che erano, così, chiamati a svolgere - con lo scambio dialettico e l'esigenza di chiarimento, pulizia mentale, semantica e lessicale che richiede - racchiudesse la polpa più vera dell' “apprendere”. Fu in questo modo che cercammo di rafforzare la loro capacità di costruirsi autonomamente un metodo di studio, ma anche di fargli ritrovare motivazione e fiducia nelle proprie capacità inesplorate e, insieme, abituarli a far ricorso alle poche, tra esse, che loro stessi sapevano riconoscersi ma che, di frequente, non ritenevano “utili” o “spendibili” in precise circostanze didattiche. Li spingemmo a ragionare su come risolvere problemi e difficoltà, legate a contesti e situazioni concrete e specifiche. Lo facemmo, ancor prima che nozioni come “competenze di base” e “trasversali” divenissero l'ultimo obiettivo e traguardo della scuola odierna. E lo facemmo sviluppando una didattica esperienziale costruita su forme laboratoriali che spesso ci vedevano, tra le altre cose, coordinarci e lavorare insieme su un gruppo, accostare discipline apparentemente distanti - o che loro erano abituati a vedere come rigidamente separate- avvicinandole, anche, a regioni inusuali rispetto a quelle delle consuete discipline classicamente ascritte all'universo scolastico. Fu così che riuscimmo via via a coinvolgere, in questo esperimento, anche qualcuno dei ragazzi seduti là “fuori”. Ad esempio costruimmo, insieme a loro, una lezione-laboratoriale che tentava di collegare la funzione svolta dalla figura dell'“Aedo”, - immagine rinvenuta dal mondo della “alta” cultura classica - nella sua impresa di costruzione di una narrazione epica, fondata sulla trama di un brulicante universo, pullulante di miti, saperi e significati appartenenti alla tradizione popolare, e tramandati, in essa, oralmente -, con la funzione svolta nei quotidiani contesti della vita metropolitana dall'odierno “Rapper”.
Definimmo, infine, un metodo che chiamammo “globale”, e che poneva, al centro di questi vari esperimenti laboratoriali e didattici, l'idea della progressiva conquista di un'autonomia personale, da parte di ciascun ragazzo, terreno di coltura di una crescita emotiva, valoriale (dunque, etico-politica) ed esistenziale, oltre che conoscitiva e didattica. In altre parole, ci eravamo dati l'obiettivo di abituare, ogni ragazzo, ad affinare, nell'esercizio, quella capacità a“ragionare con la propria testa”, (p.338) che è il motore di un arricchimento complessivo della sua persona. Spingevamo ciascun ragazzo a frugare e pescare, nel baule della propria curiosità e - più a fondo, all'interno della propria fibra emotiva - immagini in grado di risvegliare ed evocare situazioni, che potessero mostrare una parentela con contesti presenti, offrendosi come indizio prezioso in grado di orientarli nei loro contesti di vita pratica, e farsi, contemporaneamente, elemento fruttuoso di un continuo scambio relazionale, di fornirgli un arricchimento emotivo, o ancora, mostrarsi come una risorsa empatica cui attingere persino sul piano conoscitivo. Troppo spesso, infatti, l'elemento empatico che è in gioco tanto nella socializzazione come forma di arricchimento personale, quanto nella conoscenza individuale e socializzata, non rappresenta il perno ed il motore dell'insegnamento scolastico, e non trova, in esso, il rilievo di una radice che si mostra, unitariamente, alla base di entrambe i processi.

Inducemmo, cioè, i ragazzi a sentirsi “un gruppo”, “farsi gruppo”, a relazionarsi e ragionare in maniera orizzontale. Li portammo a cogliere un risultato nei termini di una conquista collettiva e un obiettivo nei termini di un orizzonte comune. E cercammo di trasmetter loro l'idea della stessa conoscenza come vicenda esperienziale orchestrata dall'intervento di una pluralità di voci, ossia vissuta nel segno di un percorso di costruzione fatto insieme. Giungemmo, cioè, con loro, a praticare una democrazia dell'apprendimento la cui radice politica ci parve esser il nerbo più autentico del nostro orizzonte educativo, la bussola con cui orientare la nostra direzione pedagogica, il filo conduttore, di volta in volta, in gioco in ogni precisa situazione didattica. Questa educazione politica svolta nella stessa pratica del processo di apprendimento, in altre parole, ci sembrò il motore di fondo, il motivo che restituiva senso ad ogni singolo atto didattico.
Era un modello molto diverso dalle ripetizioni private, certo.
Ma era un modello anche molto diverso dalla scuola cui i ragazzi erano abituati quotidianamente.
Cosa che ci indusse a riflettere a lungo suoi limiti di un tipo di insegnamento standardizzato - ancora dominante nella scuola odierna - che troppo spesso rivela la sua inefficacia, impattando proprio sul dato della dispersione. Cercammo di analizzare ed individuare le principali falle riscontrabili nell'organizzazione didattica che viene proposta all'interno dell'insegnamento odierno. Ravvisammo quanto essa fosse, a sua volta, condizionata dall' imporsi di un complessivo modello di strutturazione della vita scolastica, la cui rigidità permea persino le concrete pratiche di insegnamento, limitando e riducendo il margine dei loro effettivi spazi di manovra, ed imponendo la cadenza di un canone, costruito sull'imperativo di una massima velocità di apprendimento e produzione - oggi così emblematicamente espressa nella tipica “rincorsa al programma annuale” - che, di fatto, finisce per “scartare” o lasciare indietro chi ha bisogno di altro tempo, chi appoggia su un tempo differente - prolungato ed esteso - l'esperienza della maturazione dei propri apprendimenti, per farne un giorno tesoro impensato e patrimonio inevaso di un percorso di crescita esistenziale, personale ed emotiva, oltre che didattica. Rintracciammo, cioè, nell' odierna “situazione strutturale”[22] della scuola - nell'ossatura complessiva della sua attuale impalcatura, rigida ed ingessata- il principale elemento responsabile del disamoramento di molti dei suoi alunni, il dato che favorisce il continuo aumento del rischio di una loro perdita, ancor oggi così “evidente e dura nei numeri, sempre cospicui, di abbandoni e bocciature, [e così] nascosta ed insidiosa, nella preparazione [ritenuta] insufficiente o scarsa di quasi la metà degli studenti che pure restano dentro il sistema”[23]. Una scuola, dunque, che non sa mettere i ragazzi “al centro”della programmazione del proprio operato concreto.

Pietralata degrado

Il fantasma e l'attaccamento a quell'idea di produttività soggiacente al modello scolastico vigente, l'esigenza di una prestazione rapida e di un'immediata efficacia di un risultato - riportabile in un voto o riposto in una singola prova - quali riscontri stimati come principale terreno di verifica della bontà del funzionamento di questo meccanismo, si confermava l'elemento più difficile da sciogliere anche nel vissuto dei ragazzi: esso rappresentava l'arcano più grande da “contenere” e sconfiggere, nella loro mente, come anche nelle aspettative dei loro genitori, (quando dei genitori c'erano), perché, in fondo, oggi, esso rappresenta la base del complesso valoriale della società attuale, il motivo di fondo che essa ripropone nei suoi modelli e con cui ristruttura l'economia delle relazioni, ed, insieme, il valore supremo su cui la scuola stessa tende a registrare, attualmente, la tenuta della sua meccanica, aggiustando di volta in volta il suo tiro. Le procedure dei test INVALSI, nate allo scopo di fornire, su base statistica, il polso attuale del fenomeno della dispersione scolastica - sulla traccia di indicatori che misurino il livello di preparazione raggiunto da ciascun ragazzo - non fa che confermare il trionfo di un'immagine economica e produttiva dei processi reali di apprendimento che limita, di fatto, la ricostruzione della vicenda singolare del percorso di ogni alunno, squalificandola, valutandola in base a degli standard costruiti sulla base di criteri che rischiano di divenire la principale preoccupazione ed il principale oggetto di attenzione con cui la scuola è alle prese, oggi.
Riflessioni, queste, che ora mi riaffiorano alla mente, trovando chiara conferma nell'acuta diagnosi condotta da Alberto Alberti, all'interno del suo contributo al dibattito sul tema della dispersione La scuola: disadattata o protagonista?[24]. Egli ci mostra come la vita della scuola odierna sia orchestrata sull'offerta di un'unica “taglia”[25], costruita su una “sequenza canonica” che si ripete di anno in anno:

“parola dell'insegnante, ascolto dell'alunno, lezione, ripetizione, libro di testo, studio a casa, interrogazione, cattedra, lavagna, compito scritto, voto. Il tutto scandito in quadri orari, successioni cronologiche, dosaggi e cadenze pressoché immodificabili. La campanella, il trimestre, l'anno scolastico come l'aula, il corridoi, la fisicità di un ambiente “chiuso”[…] elementi – questi - che compongono un preciso assetto operativo dentro cui il processo di insegnamento/apprendimento non può che avere regole, vincoli e condizionamenti inderogabili.”[26]
Alberti ci induce a cogliere come sia questo meccanismo a non permettere attualmente, ai ragazzi, di vivere lo spazio scolastico con maggiore libertà, disinvoltura e serenità, individuando, in ciò, la principale causa - “interna” alla scuola- del drammatico, scottante dato dell'attuale dispersione scolastica. Egli ravvisa, cioè, nella natura generale dell'impianto operante all'interno della macchina scolastica, il volto odierno di un immutato meccanismo di selezione che non può che condurre la scuola, a porre a revisione critica il suo funzionamento complessivo.
È naturale che una tale situazione inasprisse il senso di insofferenza di quei ragazzi verso la scuola, che li spingesse a provare un'avversione ostile nei confronti di un meccanismo che li rendeva invisibili, acuendo, in loro, un senso di malessere e di sconforto, che li muoveva come isole alla deriva, prede di una possibile opzione di “abbandono”; e gli instillava dentro un motivo crescente, dal ritmo incalzante, che tornava a presentarglisi come il seme di un vissuto, tinto della sensazione di essere stati, piuttosto, “abbandonati” dal sistema scolastico. Tale sensazione li gettava in un generale senso di confusione su loro stessi, inasprito nell'oscillazione di un messaggio ambiguo di un sistema che li voleva formati nella loro integrità di persone ma li valutava nei termini di una pura richiesta formativa, a sua volta misurata sulla scorta del loro rendimento e profitto scolastici. Ed è proprio questa ambiguità di fondo che cercammo di sconfiggere, formulando una pratica didattica, situata all'interno di un più amplio gesto educativo.

Il nostro progetto continuò a vivere per circa un anno e mezzo, finché non si ritrovò alle prese con un problema legato alla disponibilità, da parte dell'associazione titolare della gestione dello spazio in cui esso aveva preso sede, a mantenerne aperto l'accesso, in un momento in cui anche la loro realtà era messa a rischio dalla scadenza del Bando che gli e lo aveva assegnato precedentemente. Ci dissero che non potevano rischiare. Ci dissero che anche loro navigavano in acque cattive e rischiavano il mancato rinnovo della licenza di gestione. Intanto eravamo stati chiamati due volte dal nuovo assessore alla Cultura e le politiche giovanili preposto per quel Municipio, cui presentammo un progetto completo che non chiedeva fondi, bensì la gestione di uno spazio di quartiere, che avevamo individuato come il più felice per proseguire il nostro lavoro e che, in quel momento, si presentava lasciato in stato di abbandono: la casa di Pasolini.
In quel contesto, capimmo che il nostro progetto poteva strutturarsi in una maniera più solida, assumendo, nei panni di una veste formale, la vita che informalmente esso già aveva e che, ai nostri occhi, rinnovava davvero, infine, un sapore e uno spirito autenticamente pasoliniani. Ci dichiarammo aperti alla possibilità di coabitare la casa di Pasolini, condividendo l'eventuale gestione del suo spazio con altre esperienze associative di quartiere, alla vita delle quali- ritenevamo- esso andava restituito. L'assessore fu entusiasta del progetto e ci chiamò in più occasioni per ridiscuterlo.
Ma alla fine disse che la situazione generale in cui versava il Comune di Roma non permetteva l'iniziativa di apertura di un singolo Bando da parte di una sola realtà amministrativa municipale. E così il progetto morì, schiacciato dal peso di uno stallo amministrativo che è solo uno dei tanti episodi di stagnazione e paralisi di una macchina burocratico-amministrativa complessa come è quella del Comune di Roma.

Il sapore amaro che mi ha lasciato quella vicenda è, oggi, ancora molto forte.
Ma altrettanto forte è il senso vivo delle sensazioni che mi consegna, e di un insegnamento che è stato immediatamente riacceso dalle pagine del libro di Bernardini, e rianimato dagli spunti che mi si sono offerti durante la lettura dei tanti preziosi contributi sul tema della “dispersione scolastica”, contenuti nella raccolta del testo intitolato “La scuola diseguale”[27], che le circostanze attuali mi hanno permesso di conoscere. Essi hanno rinnovato, in me, la voglia di tornare a riflettere sul tema della dispersione scolastica, muovendo, dal terreno iniziale di un confronto con l'esperienza che ho vissuto in prima persona, e spingendola oltre. 

3) La scuola a un bivio: formazione o pedagogia?

Diverse sono le considerazioni che mi restano addosso. Ma ce n'è una che si impone sulle altre.
Per illuminarla, ripartirei dal rispondere ad una domanda: “ A cosa serve la scuola”[28], oggi?
Non mi sembra una domanda ingenua, né peregrina. Piuttosto, il terreno su cui essa può ristabilire una “precisa definizione di obiettivi rispetto ai quali è effettivamente possibile calibrare l'attività didattica riducendo al minimo la dispersione”[29].
E l'immagine di Bernardini mi torna in soccorso. Ritengo che la sua vicenda, infatti, contenga la scintilla di un lascito prezioso, la vibrazione di un fragile indizio che è, però, il solo capace di risvegliare il senso più profondo che questa domanda contiene.
La sua appassionata attività di maestro, i suoi sforzi per combattere l'esclusione scolastica, infatti, testimoniano una battaglia che appartiene ad un orizzonte ideale dal respiro più amplio del semplice problema didattico dell'alfabetizzazione: egli si è mosso nella direzione di una lotta alle disuguaglianze sociali che ha rappresentato, ai suoi occhi, l'obiettivo più alto della sua attività educativa ed, insieme, la sostanza ed il senso ultimo di ogni suo gesto didattico. Essa definisce, cioè, il modo stesso con cui Bernardini ha inteso la pratica del “fare scuola”. Sulla scia di questo obiettivo, ha assegnato un ruolo pedagogico che ho definito “forte”, alla scuola. Perché, in fondo, la sua è stata una lotta dal senso politico: una presa di posizione forte, un gesto radicale, con cui egli ha posto la scuola idealmente su un terreno antagonista rispetto al roboante rumore dei valori dominanti di una società che, allora come ora, continua a produrre disuguaglianze dentro e fuori le sue mura. La sua vicenda, cioè, può essere intesa come uno sforzo per la costruzione dell'“orizzonte ideale di [una] scuola autenticamente democratica”[30], che ha trovato forza concreta in un modo differente di “praticare l'apprendimento”, in un'educazione affettiva, emotiva e politica, dei suoi ragazzi, che ha reso possibile un processo sociale e collettivo di costruzione del sapere. La stessa pratica che, in fondo, animò il nostro modo di pensare la didattica all'interno del centro. Perché, se è vero che noi non eravamo una scuola, ma ciò che inizialmente ho definito impropriamente un'altra agenzia formativa sul territorio, o, piuttosto, una realtà associativa informale che si risolveva a dare un'impronta educativa forte alla costruzione del suo stesso orientamento didattico, è pur vero che, proprio il carattere di fragile “alterità” inscritto nella natura di quel progetto, mi porta ora ad avanzare una serie di considerazioni sul ruolo politico-educativo centrale che la scuola deve tornare a ricoprire all'interno nostra società. Benché poche, infatti, essa possiede ancora quelle risorse minime che le riservano la possibilità di poter incidere concretamente sulla vita di chi la attraversa (anzitutto gli studenti, certo, ma a ben vedere anche gli insegnanti e le famiglie), e di farlo con una forza che nessun altro istituto formativo può avere: questa è una chance che la scuola non può sprecare, un'opportunità che non deve perdere.
Mi pare, invece, che il mondo della scuola, oggi, sia segnato ed animato da un'ambiguità di fondo che, se non viene sciolta sul terreno di coltura su cui poggia il proprio asse, pare destinarla a restare avvolta in una stagnazione, imprigionata in un' empasse da cui fatica ad uscire, e rispetto alla quale una semplice trasformazione curriculare o l'ideazione di appositi progetti laterali di “prevenzione e recupero”[31], pensati come apporto aggiuntivo e sussidiario, al normale svolgimento della didattica, non potranno cambiare le cose.
Essa, cioè, si muove in un'oscillazione che la vede da un lato porsi come obiettivo ideale quella dell'inclusione sociale, salvo poi costruire una quadro delle competenze che segna le “competenze sociali e civiche” come patrimonio di acquisizioni specifiche, quasi fosse un campo disciplinare apposito e non un terreno pratico su cui mettere in moto l'attivazione delle risorse che, proprio nell'imparare a confrontarsi, possono diventare competenze.

È un fatto: la politica scellerata degli imponenti “tagli finanziari” degli ultimi 10 anni, ci consegnano l'immagine di una scuola ormai esangue, schiacciata dal peso di un apparato amministrativo sempre più articolato, imponente e farraginoso, di fronte al quale, però, le risorse effettive concesse alla sua iniziativa sono rese sempre più esigue, in un'evidenza che si mostra, oggi, nella riduzione drastica del personale docente e non docente, nello stato di una permanente fatiscenza delle strutture e degli spazi scolastici, nella gestione titolare - da parte del manager scolastico - di una percentuale consistente degli insufficienti fondi ad essa concessi. Ma forse - come sembra notare il punto di vista espresso da Alberti - si rischia in questo modo di concentrarsi su “inadeguatezze e difetti”[32] che ci distolgono dal “cuore del problema”[33], non permettendoci di coglierne la radice più profonda[34], quella in grado di restituirgli una posizione di avamposto , nel tentativo di “abbattere la “dispersione scolastica, combattendola nel luogo in cui si produce e non all'esterno”[35]. Posizione, questa, che nessun altra “agenzia formativa”può assumere e che nessun'altra realtà associativa può sostituire.
Ritengo, infatti, che solo la scuola possa offrire qualcosa di più di quel puro servizio di formazione che viene svolto dalle numerose agenzie formative ormai disseminate sull'intero territorio nazionale. La formazione è oggi la pietra angolare su cui la nuova società della conoscenza costruisce il proprio mercato in crescita, il luogo in cui essa ristruttura l'appetibilità delle proprie opzioni di consumo. Essa rappresenta la frontiera di un nuovo business che viene giocato, ormai, a varie altezze, sul terreno di tutti i livelli della conoscenza- cosa che la proliferazione imperante di titoli, corsi e master post-universitari ci mostrano pedissequamente ed a cui il dato schiacciante di una disoccupazione giovanile crescente sembra rinviare nell'imporre un modello di ricerca e di richiesta occupazionale incentrato su un'affannata rincorsa all'insegna di un continuo aggiornamento del curriculum vitae. La scuola non può limitarsi a questo, non può inciampare su questo spostamento del suo asse maestro, non può insinuare la radice di questo modello all'interno della sua sostanza. Essa deve avere il coraggio di ritrovare il senso complessivo del suo ruolo pedagogico-sociale, ma per farlo, non deve solo modificare la sua struttura attuale. Piuttosto ridefinire in maniera unitaria il senso del ruolo che vuole assegnarsi ed, insieme, avere la capacità di ricollocarlo, di volta in volta, nelle maglie del contesto locale e reale in cui essa si trova ad operare e con cui deve relazionarsi.
I tempi sono maturi. È l'ora di un appuntamento cui essa non può mancare.
Favia Pelliccia

foto: Dino Ignani


[1]Bernardini, A. (2004), Un anno a Pietralata , Ilisso, Nuoro.
[2]Ivi, p. 21.
[3]Calvino, I. (2004), Presentazione, p.VIII, in: Il sentiero dei nidi di ragno, Oscar Mondadori, Milano.
[4]Op.cit.
[5]Pirozzi, S. e Rossi-Doria, M. (2011), La sfida per l'inclusione, p. 253, in: Benvenuto, G. (a cura di), La scuola diseguale, Dispersione ed equità nel sistema di formazione, Anicia.
[6]Ibidem.
[7]De Mauro, T., Prefazione , p. 21, in : Bernardini, A. (2004), Un anno a Pietralata , Ilisso, Nuoro.
[8] I ragazzi di Barbiana, (1996): Lettera a una professoressa, p. 20, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze.
[9]Benvenuto, G. e Vecchiarelli, M., (2011), Momenti e figure del processo di alfabetizzazione in Italia, p. 465, in: Benvenuto, G.(a cura di), Op.cit.
[10] De Mauro, T., Prefazione, p. 465.
[11] Ibidem.
[12]Ibidem.
[13]Pirozzi, S. e Rossi-Doria, M. (2011), La sfida per l'inclusione, p. 253, in: Benvenuto, G. (a cura di), La scuola diseguale, Dispersione ed equità nel sistema di formazione, Anicia
[14]Ivi., p. 254.
[15]Ibidem.
[16]Ibidem
[17]Ibidem.
[18]Ibidem.
[19]Ibidem.
[20]Ibidem.
[21]Benvenuto, G. e Guglielmi, P. (2011), La scuola delle competenze come obiettivo di equità, p. 338, in: La scuola diseguale, Op. cit.
[22]Alberti, A. (2011), La scuola: disadattata o protagonista?, p. 249, in: La scuola diseguale, Op. cit.
[23]Ivi, p. 245.
[24]Op. cit.
[25]Ivi, p. 248.
[26]Ibidem.
[27]Op.cit.
[28]Corsini, C. (2011), Equità e valutazione delle disuguaglianze, in: La scuola diseguale, Op. cit.
[29]Pesci, F. (2011), Il falso problema della selezione e la scuola attiva., p. 152, in: La scuola diseguale, Op.cit.
[30]Ivi, p. 154.
[31]Alberti, A., cit.
[32]Ivi, p.245.
[33]Ibidem
[34]Ibidem.
[35]Ivi, p.250

Enzo Siciliano: Dino Ignani


Il poeta è senza personalità. É come un camaleonte, diceva Keats - animale informe e mutevole. Animale privo di stile, diremmo noi. Si possono dunque fotografare, i poeti, lasciano almeno la traccia di una sagoma sulla carta sensibile, prima di svanire o di mutare pelle? E resta l’alone della poesia, attorno a quelle sagome?
Dino Ignani ha tentato questa prova: ha messo al servizio dei poeti il genere nobile, un po’ monumentale, comunque implacabile, del ritratto. Il ritratto è in fondo la cresima storica di un artista. Il risultato è una galleria di volti di poeti, alcuni molto belli. Eppure…

Eppure, anche così, nonostante i loro sguardi penetranti o allusivi o sprezzanti, i poeti sono e restano invisibili. Il “significato” sta alle loro spalle. Dino Ignani ha accoppiato, incollato ciascuno di questi scrittori a un fondale - un quadro amato, un’immagine, uno studio fitto di libri - che ne chiarisce la vocazione: come se senza quell’appiglio la figura si dissolverebbe.
É dunque il poeta un flatus vocis? La sensazione si rafforza pensando alla crescente immaterialità del ruolo: il poeta senza mestiere, senza pubblico, talvolta addirittura senza libri.

E così, scorporati seppur riuniti in una corporazione, i poeti scolorano, svaporano, come uomini di fumo… ci si chiede alla fine: chi sono allora i vecchi, le donne, i ragazzi di queste fotografie?

                                                                  Enzo Siciliano, Nuovi Argomenti (1984)

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Certo, sono trascorsi moltissimi anni e Dino Ignani non aveva un sì vasta schiera di seguaci poeti che, pur tuttavia, restano invisibili, salvo qualche rarissimo caso, di alcuni autori fotografati in quegli anni come e sopra tutti Amelia Rosselli, Caproni o Bertolucci e pochi altri. Ma cogliere l'attimo a volte ironico, più spesso severo dello 'scrittore' non è certo facile e, in questo tempo di poeti a valanga non è certo facile. Ma il lavoro di un fotografo come Ignani non è certo quello di scoprire ciò che non c'è, semmai esaltare ciò che è palese. Oggi la galleria di poeti si affianca ad altre dove è ben visibile la qualità commista all'originalità dei ritratti o delle immagini di Roma, della Sardegna o della Guinea.

Un'arte quella della fotografia che è divenuta nel tempo passione e lavoro.

                                                                                                                                    b.c.