Viene pubblicata per la prima volta in italiano (1978) l'opera più importante del filosofo francese. Una scoperta di cui pochi si accorsero, salvo Giulio Giorello che seguiva (adottando i testi in francese) l'autore.
Il libro è ancora disponibile e si può ordinare nel sito della Pellicanolibri
Questa che pubblichiamo è la Premessa
PENSIERO
FILOSOFICO E SPIRITO SCIENTIFICO
I
L’utilizzazione
dei sistemi filosofici in domini lontani dalla loro origine spirituale è sempre
un’operazione delicata, spesso un’operazione infida. Così trapiantati, i
sistemi filosofici divengono sterili o ingannevoli; perdono la loro efficacia
di coerenza spirituale, efficacia così notevole quando li si rivive nella loro
reale originalità — con la scrupolosa fedeltà dello storico —, nella loro
orgogliosa certezza di pensare quel che non si penserà mai due volte. Si
dovrebbe quindi concludere che un sistema filosofico non deve essere utilizzato
per fini diversi da quelli che esso si attribuisce. Quindi, la più grave
manchevolezza ai danni dello spirito filosofico sarebbe proprio il misconoscere
questa intima finalità, questa finalità spirituale che dà vita, forza e
chiarezza ad un sistema filosofico. In particolare, se si tenta di lumeggiare i
problemi della scienza con la riflessione metafisica, se si tende a confondere
i teoremi e i filosofemi, ci si trova dinnanzi la necessità di applicare una
filosofia necessariamente finalistica e chiusa ad un pensiero scientifico
aperto. Si corre il rischio di scontentare tutti: scienziati, filosofi e
storici.
In realtà, gli
scienziati ritengono inutile una preparazione metafisica; essi fanno
professione di accettare, sulle prime, la lezione dell’esperienza se lavorano
alle scienze sperimentali, i principi dell’evidenza razionale se lavorano alle
scienze matematiche. L’ora della filosofia batte, per loro, solo dopo il lavoro
effettivo; essi concepiscono quindi la filosofia delle scienze come un bilancio
di risultati generali del pensiero scientifico, come una raccolta di fatti
importanti. Poiché la scienza è sempre incompiuta, la filosofia degli
scienziati rimane sempre più o meno eclettica, sempre aperta, sempre precaria.
Anche se i risultati positivi rimangono, per certi aspetti, debolmente
coordinati, questi dati possono essere lasciati così, come degli stati dello
spirito scientifico, a danno dell’unità che caratterizza il pensiero
filosofico. Per lo scienziato la
filosofia delle scienze appartiene ancora al regno dei fatti.
Da parte loro,
i filosofi, giustamente coscienti del potere di coordinazione delle funzioni
spirituali, giudicano sufficiente una meditazione di questo pensiero
coordinato, senza curarsi troppo del pluralismo e della varietà dei fatti. I
filosofi possono divergere tra loro sulla ragione di questa coordinazione, sui
principi della gerarchia sperimentale. Alcuni possono andare tanto lontano
nell’empirismo, da ritenere che la normale esperienza oggettiva basti a
spiegare la coerenza soggettiva. Ma non si è filosofo se non si prende
coscienza, ad un dato momento della riflessione, della coerenza e dell’unità
del pensiero, se non si formulano le condizioni della sintesi del sapere. Ed è
sempre in funzione di questa unità, di questa coerenza, di questa sintesi, che
il filosofo pone il problema generale della conoscenza. Allora la scienza gli
si offre come una raccolta particolarmente ricca di conoscenze ben fatte, di
conoscenze ben connesse. In altre parole, il filosofo chiede semplicemente alla
scienza esempi per provare l’attività armoniosa delle funzioni spirituali, ma
crede di avere senza la scienza, prima della scienza, il potere di analizzare
questa attività armoniosa. Così gli esempi scientifici vengono sempre evocati,
mai sviluppati. A volte gli esempi scientifici sono perfino commentati seguendo
principi che non sono principi scientifici; essi suscitano metafore, analogie,
generalizzazioni. Avviene così che troppo spesso, sotto la penna del filosofo,
la relatività degenera in relativismo, l’ipotesi in supposizione, l’assioma in
verità prima. In altri termini, rimanendo al di fuori dello spirito
scientifico, il filosofo crede che la filosofia delle scienze possa limitarsi
ai principi della scienza, ai temi generali, o ancora, limitandosi strettamente
ai principi, il filosofo pensa che la filosofia della scienza abbia la finalità
di condurre i principi della scienza ai principi di un pensiero puro che potrebbe
non interessarsi dei problemi dell’applicazione effettiva. Per il filosofo la filosofia delle scienze non appartiene mai
totalmente al regno dei fatti.
Così la
filosofia delle scienze rimane troppo spesso accantonata alle due estremità del
sapere: nello studio dei principi generali dai filosofi, nello studio dei
risultati particolari dagli scienziati. Essa si esaurisce contro i due ostacoli
epistemologici contrari che limitano ogni pensiero: il generale e l’immediato.
Essa valorizza a volte l’à priori, a
volte l’à posteriori, misconoscendo le trasmutazioni di valori epistemologici
che il pensiero scientifico contemporaneo opera continuamente tra l’a priori e l’a posteriori, tra i valori sperimentali e i valori razionali.
II
Pare dunque
che manchi una filosofia delle scienze che ci mostri in quali condizioni — a un
tempo soggettive e oggettive — principi generali conducano a risultati
particolari, a fluttuazioni diverse; e in quali condizioni risultati
particolari suggeriscano generalizzazioni che li completano, dialettiche che
producono principi nuovi.
Se si -potesse
allora tradurre in termini filosofici il doppio movimento che anima attualmente
il pensiero scientifico, ci sì accorgerebbe che d’alternanza dell’a priori e dell’a posteriori è obbligatoria, che l’empirismo e il razionalismo sono
legati, nel pensiero scientifico, da uno strano legame, forte come quello che
unisce il piacere e il dolore. In vero, l’uno trionfa dando ragione all’altro:
l’empirismo ha bisogno di essere compreso, il razionalismo d’essere applicato.
Un empirismo senza leggi chiare, senza leggi coordinate, senza leggi deduttive
non può essere né pensato né insegnato; un razionalismo senza prove tangibili,
senza applicazione alla realtà immediata non può essere del tutto convincente. Si
prova il valore di una legge empirica facendone la base di un ragionamento. Si
legittima un ragionamento facendone la base di un’esperienza. La scienza, somma
di prove e di esperienze, somma di regole e di leggi, somma di evidenze e di
fatti, ha quindi bisogno di una filosofia a due poli. Più esattamente ha
bisogno di uno sviluppo dialettico, poiché ogni nozione viene chiaramente
definita in maniera complementare da due punti di vista filosofici differenti.
Si
interpreterebbero male queste parole se si leggesse in esse una semplice
ammissione di dualismo. Al contrario, la polarità epistemologica è ai nostri
occhi la prova che ciascuna delle dottrine filosofiche che abbiamo
schematizzato con i termini empirismo e razionalismo è il complemento effettivo
dell’altra. L’una completa l’altra. Pensare scientificamente significa porsi
nel campo epistemologico intermedio fra teoria e pratica, fra matematica ed
esperienza. Conoscere scientificamente una legge naturale vuol dire conoscerla
ad un tempo come fenomeno e come noumeno.
D’altra parte,
poiché in questo capitolo preliminare vogliamo precisare quanto più chiaramente
possibile il nostro intento filosofico, dobbiamo aggiungere che, a nostro
avviso una delle due direzioni metafisiche deve essere privilegiata: quella che
va dal razionalismo all’esperienza. È attraverso questo movimento
epistemologico che cercheremo di caratterizzare la filosofia della scienza
fisica contemporanea. Interpreteremo quindi, nel senso di un razionalismo, la
supremazia recente della fisica matematica.
Questo
razionalismo applicato, questo razionalismo che riprende gli insegnamenti
forniti dalla realtà per tradurli in programma di realizzazione gode
d’altronde, secondo noi, di un privilegio che è certo nuovo. Per questo
razionalismo che progetta, assai differente in ciò dal razionalismo
tradizionale, l’applicazione non è una mutilazione; l’azione scientifica
guidata dal razionalismo matematico non è una transazione sui principi. La
realizzazione di un programma razionale di esperienze determina una realtà
sperimentale priva di irrazionalità. Avremo occasione di provare che il
fenomeno ordinato è più ricco del fenomeno naturale. Ci basta, per il momento,
aver rimosso dallo spirito del lettore l’idea comune che vuole che la realtà
sia una somma di inesauribile irrazionalità. La scienza fisica contemporanea è
una costruzione razionale: elimina l’irrazionalità dai suoi materiali di
costruzione. Il fenomeno realizzato deve essere protetto da ogni perturbazione
irrazionale. Come si vede, il razionalismo che difendiamo affronterà la
polemica che si appoggia all’irrazionalismo insondabile del fenomeno per
affermare una realtà. Per il razionalismo scientifico l’applicazione non è una
sconfitta, un compromesso. Esso vuole applicarsi. Se si applica male, si
modifica. Non rinnega per questo i suoi principi: li dialettizza, Insomma la
filosofia della scienza fisica è fora® la sola filosofia che si applica
determinando un superamento dei suoi principi. In breve, è la sola filosofia
aperta. Ogni altra ¦; filosofia pone i propri principi come intangibili, le
proprie verità, prime come totali e compiute. Ogni altra filosofia si gloria
del propria chiusura.
III
Come non
accorgersi allora che una filosofia che voglia essere veramente adeguata al
pensiero scientifico in costante evoluzione deve considerare la reazione delle
conoscenze scientifiche sulla struttura spirituale? Ed è così che, sin
dall’inizio delle nostre riflessioni sul ruolo di una filosofia delle scienze
ci imbattiamo in un problema che ci sembra mal posto tanto dagli scienziati
quanto dai filosofi. È il problema della struttura e dell’evoluzione dello
spirito. Anche qui, la stessa opposizione: lo scienziato crede di partire da
uno spirito senza struttura, senza conoscenze; il filosofo pone il più delle
volte uno spirito costituito, provvisto di tutte le categorie indispensabili
–per comprendere il reale.
Per lo
scienziato, la conoscenza sorge dall’ignoranza come la luce dalle tenebre. Lo scienziato
non s’avvede che l'ignoranza è un tessuto di errori positivi, tenaci, solidali.
Non si rende conto che le tenebre spirituali hanno una struttura e che, in
queste condizioni, ogni esperienza oggettiva corretta deve sempre determinare
la correzione di un errore soggettivo. Ma non si distruggono facilmente gli errori a uno a uno.
Essi sono coordinati. Lo spirito scientifico non può costituirsi che distruggendo
lo spirito non scientifico. Troppo spesso lo scienziato affida ad una pedagogia
frammentaria mentre lo spirito scientifico dovrebbe mirare ad una totale
riforma soggettiva. Ogni reale progresso nel pensiero scientifico ha bisogno di
una conversione. I progressi del pensiero scientifico contemporaneo hanno
determinato delle trasformazioni negli stessi principi della conoscenza.
Per il
filosofo che per mestiere trova in sé delle verità prime, l’oggetto preso in
blocco conferma senza difficoltà i principi generali. Così le perturbazioni, le
fluttuazioni, le variazioni non turbano affatto il filosofo. Egli o le trascura
come dettagli inutili o le affolla per convincersi della fondamentale
irrazionalità del dato. In entrambi i casi, il filosofo è preparato a
sviluppare, a proposito della scienza, una filosofia chiara, rapida, facile, ma
che rimane una filosofia da filosofo. Una sola verità basta allora per uscire
dal dubbio, dall’ignoranza, dallo irrazionalismo; essa basta a illuminare
un’anima. La sua evidenza si specchia in infiniti riflessi. Questa evidenza è
una luce unica: non ha forme, non ha varietà. Lo spirito vive una sola
evidenza. Non cerca di crearsi altre evidenze. L’identità dello spirito nell’io
penso è così chiara che la scienza di questa coscienza chiara è immediatamente
la coscienza di una scienza, la certezza di fondare una filosofia del sapere.
La coscienza della identità dello spirito nelle sue diverse conoscenze arreca,
da sola, la garanzia di un metodo permanente, fondamentale, definitivo. Di
fronte ad un tale successo, come si potrebbe porre la necessità di modificare
lo spirito e di andare alla ricerca di nuove conoscenze? Per il filosofo, le
metodologie, così diverse, così mobili nelle differenti scienze, dipendono
comunque da un metodo iniziale, da un metodo generale che deve informare tutto
il sapere, che deve trattare alla stessa maniera tutti gli oggetti. Così, una
tesi come la nostra che pone la conoscenza come una evoluzione dello spirito,
che accetta variazioni che riguardano l’unità e la perennità dell’io penso deve turbare il filosofo.
Pure, è ad una
tale conclusione che dobbiamo arrivare se vogliamo definire la filosofia della
conoscenza scientifica come una filosofia
aperta, come la coscienza di uno spirito che si fonda lavorando
sull’ignoto, cercando nel reale ciò che contraddice conoscenze anteriori. Innanzitutto,
occorre prendere coscienza del fatto che l’esperienza nuova dice no
all’esperienza vecchia: senza di che, è evidente, non si tratta di
un’esperienza nuova. Ma questo no non è mai definitivo per uno spirito che sa
dialettizzare i suoi principi, costituire in se stesso nuove forme di evidenza,
arricchire il suo corpo di spiegazione senza accordare alcun privilegio a quel
che sarebbe un corpo naturale di spiegazione adatto a spiegar tutto.
Il nostro
libro apporterà parecchi esempi di questo arricchimento; ma senza attendere,
per chiarire bene il nostro punto di vista, diamo, sull’esempio più sfavorevole
alla nostra tesi, nel dominio stesso dell’empirismo, un esempio di questa
trascendenza sperimentale. Crediamo infatti che questa espressione non sia
esagerata per definire la scienza di osservazione naturale. V’è rottura tra la
conoscenza sensibile e la conoscenza scientifica. Si vede la temperatura su un
termometro, non la si sente. Senza teoria non si saprebbe mai se ciò che si
vede e ciò che si sente corrispondono allo stesso fenomeno. Risponderemo, in
questo nostro libro, all’obiezione che si fa forte della traduzione
necessariamente sensibile della conoscenza scientifica, all’obiezione che
pretende di ridurre l’esperimento ad una serie di letture di indici. Invero,
l'oggettività della verifica in una lettura di indici designa come oggettivo il
pensiero che si verifica. Il realismo della funzione matematica è presto
sostituito alla realtà della curva sperimentale.
D’altronde, se
non si concordasse con questa nostra tesi che pone lo strumento come un che di
là dall’organo, abbiamo in riserva una serie di argomenti coi quali proveremo
che la microfisica postula un oggetto che va di là dagli oggetti comuni. V’è
dunque almeno una rottura nell’oggettivazione ed è per questo che siamo
autorizzati a dire che l’esperienza nelle scienze fisiche ha un oggetto di là,
una trascendenza, che non è chiusa in se stessa. Anche il razionalismo che
informa questa, esperienza deve accettare subito una apertura correlativa a questa trascendenza empirica. La filosofia
criticista, dì cui sottolineeremo la solidità, deve essere modificata anche in
funzioni di questa apertura. Più semplicemente, poiché i quadri dell’intelletto
devono essere resi più duttili e distesi, la psicologia dello spirito
scientifico deve essere fatta su basi nuove. La cultura scientifica deve
determinare delle modificazioni profonde del pensiero.
IV
Ma se il
dominio della filosofia delle scienze è così difficile da delimitare, noi
vorremmo, in questo saggio, invocare da tutti delle concessioni.
Ai filosofi,
richiederemo il diritto di servirci di elementi filosofici staccati dai sistemi
in cui hanno avuto origine. La forza filosofica di un sistema è concentrata a
volte in una funzione particolare. Perché esitare a proporre questa funzione
particolare al pensiero scientifico che ha tanto bisogno di principi di
informazione filosofica? È sacrilegio, ad esempio, prendere uno strumento
epistemologico così meraviglioso come la categoria kantiana e mostrarne la
validità per l’organizzazione del pensiero scientifico? Se un eclettismo dei fini
confonde indebitamente tutti i sistemi, pare che un eclettismo dei mezzi sia
ammissibile per una filosofia delle scienze che voglia affrontare tutti i
compiti del pensiero scientifico, che voglia rendere conto dei differenti tipi
di teorie, che voglia misurare la portata delle loro applicazioni, che voglia,
anzitutto, sottolineare i procedimenti assai vari della scoperta, fossero anche
i più arrischiati. Chiederemo anche, ai filosofi, di rompere con l’ambizione di
voler trovare un solo punto di vista, e un punto di vista fisso, per giudicare
l’insieme di una scienza così vasta e così mutevole come la fisica. Approderemo
allora, per caratterizzare la filosofia delle scienze, ad un pluralismo
filosofico, il solo capace di informare gli elementi così diversi
dell’esperienza e della teoria, così lontani dall’essere tutti allo stesso
grado di maturità filosofica. Definiremo la filosofia delle scienze come una
filosofia dispersiva, come una filosofia distribuita. Inversamente, il pensiero
scientifico ci apparirà come un metodo di dispersione ben ordinato, come un
metodo di analisi, assai fine, per i diversi filosofemi troppo pesantemente
raggruppati nei sistemi filosofici.
Agli
scienziati richiederemo il diritto di distogliere per un istante la scienza dal
suo lavoro positivo, dalla sua volontà di oggettività per scoprire ciò che
rimane di soggettivo nei metodi più rigorosi. Cominceremo ponendo agli
scienziati domande apparentemente d’ordine psicologico e a poco a poco
proveremo loro che ogni psicologia è solidale con postulati metafisici. Lo
spirito può cambiare metafisica; non può fare a meno della metafisica.
Chiederemo quindi agli scienziati: come pensate, quali sono i vostri
brancolamenti, i vostri tentativi, i vostri errori? Sotto quale impulso
cambiate opinione? Perché siete così concisi quando parlate delle condizioni
psicologiche di una nuova scoperta? Dateci soprattutto le vostre idee vaghe, le
vostre contraddizioni, le vostre idee fisse, le vostre convinzioni senza prove.
Si fa di voi dei realisti. È proprio sicuro che questa filosofia granitica,
senza articolazioni, senza dualità, senza gerarchia, corrisponda alla varietà
dei vostri pensieri, alla libertà delle vostre ipotesi? Diteci quel che
pensate, non uscendo dal laboratorio, ma nelle ore in cui lasciate la vita
comune per entrare nella vita scientifica. Dateci, non il vostro empirismo
della sera, ma il vostro vigoroso razionalismo del mattino, lo a priori della
vostra rèverie matematica, la foga dei vostri progetti, le vostre intuizioni
inconfessate. Se potessimo estendere così la nostra ricerca psicologica, ci
sembra quasi evidente che lo spirito scientifico apparirebbe anch’esso in una
vera e propria dispersione psicologica, e per conseguenza in una vera e propria
dispersione filosofica, poiché ogni radice filosofica ha origine in un
pensiero. I differenti problemi del pensiero scientifico dovrebbero quindi
ricevere differenti coefficienti filosofici. In particolare, il bilancio di
realismo e razionalismo non sarebbe lo stesso per tutte le nozioni. È al
livello di ciascuna nozione che si porrebbero quindi, a nostro avviso, i
compiti precisi della filosofia delle scienze. Ciascuna ipotesi, ciascun
problema, ciascuna esperienza, ciascuna equazione esigerebbe la sua filosofia.
Si dovrebbe fondare una filosofia del dettaglio epistemologico, una filosofia
scientifica differenziale che farebbe riscontro alla filosofia integrale dei
filosofi. È questa filosofia differenziale che sarebbe incaricata di misurare
il divenire di un pensiero.
Grosso modo,
il divenire di un pensiero scientifico corrisponderebbe ad una normalizzazione,
alla trasformazione della forma realistica in una forma razionalistica. Questa
trasformazione non è mai totale. Tutte le nozioni non si trovano allo stesso
momento delle loro trasformazioni metafisiche. Meditando filosoficamente su
ciascuna nozione si vedrebbe ancora più chiaramente il carattere polemico della
definizione ristretta, tutto ciò che questa definizione distingue, sopprime,
rifiuta. Le condizioni dialettiche di una definizione scientifica differente
dalla definizione comune apparirebbero allora più nettamente e si
comprenderebbe, nel dettaglio delle nozioni, ciò che chiameremo la filosofia
del non.
V
Ecco quindi il
nostro piano: per illustrare subito le note precedenti, oscure nella loro
generalità, daremo fin dal primo capitolo un esempio di questa filosofia
dispersiva che è secondo noi, la sola filosofia in grado di analizzare la
prodigiosa complessità del pensiero scientifico moderno.
Dopo i primi
due capitoli che sviluppano un preciso problema epistemologico studieremo gli
sforzi di apertura del pensiero scientifico in tre campì il più possibile
diversi tra loro.
Dapprima al
livello di una categoria fondamentale, la sostanza, avremo occasione di
mostrare l’abbozzo di un non-kantismo, cioè di una filosofia di ispirazione
kantiana che supera la dottrina classica. Utilizzeremo così una nozione
filosofica che ha funzionato correttamente sulla scienza newtoniana e che
secondo noi bisogna aprire per tradurre la sua funzione corretta nella scienza
della chimica di domani. In questo capitolo troveremo correlativamente argomenti
per un non-realismo, per un non-materialismo, cioè per una apertura del realismo,
del materialismo. La sostanza chimica sarà quindi rappresentata come una parte
— una semplice parte — di un processo di distinzione; il reale sarà
rappresentato come un istante di una realizzazione ben condotta. Il
non-realismo (che è un realismo) e il non-kantismo (che è un razionalismo) trattati
insieme riguardo alla nozione di sostanza appariranno, nella loro opposizione
ben congegnata, come spiritualmente coordinati. Fra i due poli del realismo e
del kantismo classici nascerà un campo epistemologico intermedio
particolarmente attivo. La filosofia del non si troverà dunque ad essere non un
atteggiamento di rifiuto, bensì un atteggiamento di conciliazione. Più
precisamente, la nozione di sostanza così duramente contraddittoria quando la
si coglie nella sua informazione realista da una parte, e nella sua
informazione kantiana dall’altra, sarà chiaramente transitiva nella nuova
dottrina del non-sostanzialismo. La filosofia del non permetterà di riassumere,
insieme, tutta l’esperienza e tutto il pensiero della determinazione di una
sostanza. Una volta che la categoria sarà aperta, essa sarà capace di riunire
tutte le sfumature della filosofia chimica contemporanea.
Il secondo
campo per il quale proporremo un allargamento della filosofia del pensiero
scientifico sarà la intuizione. Ancora una volta prenderemo degli esempi
precisi. Mostreremo che la intuizione naturale non è che una intuizione
particolare, e che aggiungendo ad essa le giuste libertà di sintesi si
comprende meglio la gerarchia dei legami intuitivi. Mostreremo l’attività del
pensiero scientifico nella intuizione elaborata.
Infine,
affronteremo il terzo campo: il campo logico, che da solo richiederebbe
un’intera opera. Ma pochi riferimenti alla attività scientifica saranno
sufficienti a mostrare che i quadri più semplici dell’intelletto non possono
sussistere nella loro inflessibilità, se si vogliono misurare i nuovi destini
della scienza. In tutti i suoi principi, la ragione ortodossa può essere dialettizzata
con dei paradossi.
Dopo questo
sforzo di ampliamento applicato a dei campi così diversi come una categoria,
una intuizione, una logica, noi: torneremo, nelle conclusioni, per evitare ogni
equivoco, sui principi di una filosofia del non. In effetti dovremo ricordare
sempre che la filosofia del non non è psicologicamente un negativismo e che non
porta, rispetto alla natura, a un nichilismo. Essa procede al contrario, in noi
e fuori di noi, da una attività costruttiva. Essa pretende che lo spirito in
opera è un fattore di evoluzione. Pensare bene il reale, è approfittare delle
sue ambiguità per modificare e avvertire il pensiero. Dialettizzare il
pensiero, è accrescere la garanzia di creare scientificamente dei fenomeni completi, di rigenerare tutte
le variabili degenerate o soffocate che la scienza, come il pensiero ingenuo,
aveva ignorato nel suo primo studio.