Alfredo Spanò: Delitti minimi ovvero Delitti intimi

Molti anni fa lessi “Delitti esemplari”, un libro di Max Aub in cui l'autore si immedesima in una moltitudine di persone comuni che si abbandonano al piacere della soppressione fisica di chi detestano e non ho resistito alla tentazione di seguirne le orme, facilitato dal fatto che, oggi, i motivi d'ispirazione attorno a noi si moltiplicano di giorno in giorno. (A. S.)

ISBN 9788894017106, p.98 € 13.80
Così specifica l’autore nella nota che introduce i suoi ‘delitti minimi’ ma ritrovo soltanto l’idea di massima che ha spinto Alfredo Spanò ad elaborare una serie di racconti, spesso ispirati dalla sempre più feroce cronaca quotidiana ma anche, e soprattutto, dalla voglia dell’uomo di eliminare in modo diretto e senza fronzoli chi, in un modo o nell’altro, ostacola 'anche' i suoi pensieri, la sua vita o soltanto la necessità di essere libero da ogni costrizione. La differenza però con Max Aub sta nell’ironia, nelle descrizioni perfette e nel linguaggio assolutamente letterario che Spanò utilizza.
Così che il semplice pensiero di ogni essere umano (per questo umano) si trasforma in un racconto feroce e divertente allo tempo stesso sorprendendoci a riflettere su quante volte ognuno di noi abbia sostenuto, ma anche elaborato, a lungo lo stesso pensiero, trattenendo l’impulso. Così nel raccontarcelo l’autore ci libera (e si libera), in qualche modo, facendoci sentire (forse) meno colpevoli e protagonisti?
Delitti minimi o intimi, anche nei racconti di alcune righe soltanto, affiorano spesso e anch’io, nell’aver tenuto in mano per tutta la notte questo libro, divorandolo sino all’ultima pagina, ho creduto di ritrovarmi nella veste del criminale, o semplicemente dell’uomo appostato che punisce chi, non rendendosi conto dell’altrui affanno, attraversa la mia vita e la mia via con l’indifferenza che sempre più appare ai nostri occhi (e a quelli di chi ci è vicino).
Traggo dal libro, alcuni racconti, non tanto perché mi hanno maggiormente colpito, - è da leggere sino in fondo, anche per scoprire quanti di noi abbiano maturato almeno il pensiero e quanti altri abbiano riflettuto sui mali, anche i più piccoli, che quotidianamente ci affliggono -, ma per dare una idea sia del raccontare in poche righe, come nel “Comunista”, che in un testo più lungo, “L'Aspidistra”. In tutti i casi è la capacità della scrittura ferocemente ironica, come accennato, che colpisce in questi straordinari racconti, ben diversa da quella senza dubbio più piatta (o lineare e priva di umanità) del citato Max Aub. Non mancano i riferimenti al politico-imprenditore che più d’ogni altri ha spinto i pensieri di molti verso il delitto esemplare. Lo stesso cui molti altri, purtroppo,  farebbero anche un monumento! 

Il comunista

Era un suo chiodo fisso e lo ripeteva spesso in campagna elettorale: «I comunisti mangiano i bambini!»
Io sono comunista, lo erano mio padre e mio nonno, eroe della Resistenza.
Ero andato ad ascoltarlo per curiosità; volevo proprio sentire le balle che sarebbe stato capace di raccontare stavolta! Un milione di posti di lavoro? Meno tasse per tutti?
Mi misi in prima fila, sotto il palco, per poter vedere da vicino quella sua faccia di tolla spalmata di cerone.
Ma quando urlò, tutto congestionato, che i comunisti mangiano i bambini, d'un balzo fui di fianco a lui, con un morso gli staccai un orecchio e lo inghiottii.

La sigarettina

Non potete immaginare il fastidio che mi dava sentirla dire: «Dove sono le mie sigarettine?» «Dove hai nascosto le mie sigarettine?» «Vado a fumare una sigarettina.»
Lasciava pacchetti di sigarette e accendini dappertutto, e se ne dimenticava!
Fumava quelle sigarette sottili, inconsistenti, racchiuse in parallelepipedi di cartoncino bianco su cui campeggiava un marchio variopinto, accattivante, che contrastava spettacolarmente con la scritta di legge incorniciata di nero che avvertiva l'incauto fumatore di una probabile, atroce morte.
Quella sera, dopo cena, si mise alla ricerca spasmodica del suo pacchetto di sigarettine e iniziò con la solita tiritera: «Dove hai nascosto le mie sigarettine?» «Ridammi le mie sigarettine!»
Finalmente, dopo una ricognizione attenta in tutte le camere, le ritrovò, esattamente dove le aveva lasciate, si accomodò sul divano di fronte al televisore e si accinse ad accenderne una.
Non mi trattenni. Sul tavolino c'era ancora il flacone dell'acetone che le era servito per la pulizia delle unghie, lo afferrai e, proprio mentre dall'accendino si sprigionava la fiammella, glielo rovesciai addosso.
La fiammata fu così forte da squagliare la plastica del telecomando che stringeva in mano.


La suicida

Non so se quella donna che era ospite del nostro istituto da qualche mese soffrisse di depressione o volesse attirare l'attenzione di chi la circondava o scatenare il rimorso nei figli che le avevano imposto di lasciare la casa per l'ospizio.
«Un giorno di questi – mormorava spesso a bassa voce con gli occhi tristi rivolti a terra – mi butto dalla finestra!»
La sentivo ripetere questa tiritera da alcune settimane.
Quella mattina la ripeté ancora.
«Venga con me!» Le dissi. La portai all'ascensore. Salimmo all'ultimo piano. Quando l'ascensore si fermò e la porta si aprì, ci trovammo nella lavanderia, uscimmo sulla terrazza tra decine di lenzuola bianche che ondeggiavano al soffio di un vento tiepido. La presi sottobraccio e l'accompagnai alla ringhiera. Ci affacciammo insieme.
Passato qualche istante: «Lo faccia, – le sussurrai – è un attimo!»
E la lasciai lì, con lo sguardo perso nel vuoto, a fissare l'asfalto del cortile, tre piani più sotto.
Non lo fece, né ripeté mai più quella frase.


L'aspidistra

Robertino non aveva ancora compiuto sette anni.
All’inizio della bella stagione si trasferiva dalla nonna, nella casa in collina, al piano terra.
Si svegliava verso le nove; la vecchia gli preparava la colazione, lo mandava a giocare in giardino, si metteva a sfaccendare e non se ne curava più fino all’ora del pranzo.
Quel bambino non stava zitto un momento. La sua voce stridula riecheggiava sgradevolmente nell’aria come il suono ossessivo di una campana fessa, raggiungeva le finestre del primo piano, penetrava nella stanza dove lavoravo e mi lacerava i timpani.
Ricominciava nel pomeriggio con un susseguirsi di versi: gorgoglii, brontolii, borbottii, sibili, a imitare ora il motore di un’automobile, ora il rombo di un aereo, ora la sirena di un’ambulanza, ora le raffiche di mitraglia, che accompagnava con il tambureggiare di un bastoncino su un vecchio mastello di zinco rovesciato.
E dire che mi ero trasferita in quello sperduto paese di collina per fuggire al frastuono della città!
Quell’anno, a metà luglio, il caldo era soffocante, l’aria pesante e irrespirabile. L’afa non dava requie e la stoffa degli abiti si incollava alla pelle sudata. Per non soffocare ero costretta a tenere aperta la grande vetrata che dava sul balcone, circondato di piante. Tutto quel verde e qualche raro refolo di vento mi arrecavano un po’ di sollievo, ma il fracasso era insopportabile.
Dovevo assolutamente terminare quella traduzione e avevo bisogno di concentrarmi.
Presi coraggio e scesi, anche se sapevo che non sarebbe servito a niente.
Quando la vecchia aprì la porta, mi investì una zaffata di cavolo bollito.
Rinsecchita, segaligna, il naso aquilino, nascondeva i piedi ossuti in un paio di ciabatte consunte. Aveva indosso una veste di cotonina nera con un motivo a piccoli fiori gialli e un’ampia scollatura dalla quale spuntava il bordo di pizzo, liso, di una canottiera che non bastava a nascondere l’attaccatura di due seni cadenti, scarni e raggrinziti. I capelli grigi, corti e radi, erano appiccicati alla fronte sudata, il labbro inferiore, più spesso del superiore, le cadeva sbilenco da un lato in una smorfia sempre uguale. Mi guardava con quegli occhi chiari, vetrosi, vuoti, e sembrava non vedermi.
La pregai di farlo smettere, almeno per un po’!
Mi squadrò con quel suo sguardo ebete: «È un bambino! Non sa come sono fatti i bambini?» Mi rispose.
Di sicuro quella megera aveva voluto alludere al fatto che ero zitella. L’avrei uccisa!
Intanto aveva richiuso la porta sbattendomela in faccia.
Il giorno dopo, quando gli regalarono la trombetta, credetti di impazzire.
Dal balcone lo guardavo correre con una sciabola di plastica scolorita in una mano e quello strumento infernale nell’altra. In canottiera e mutandine guidava la carica soffiandovi dentro con quanto fiato aveva in corpo, il faccino rosso e le gote gonfie. Indossava un berretto bianco con la visiera per proteggersi dal sole a picco.
Smise solo quando udì la voce della nonna che lo chiamava per il pranzo. Lasciò cadere la sciabola e la trombetta sulla panca di legno e si diresse verso l’uscio di casa, che era proprio sotto il mio balcone.
Udii solo le urla della vecchia.
Lessi poi, nelle pagine del giornale locale, che il grande vaso di ceramica colorata, il ricordo di un viaggio in Sicilia, che conteneva l’aspidistra, cadendo, gli aveva aperto il cranio come una noce.

Alfredo Spanò, nato a Reggio Calabria nel 1947, dopo aver girovagato per l'Italia, si è fermato a Pennabilli, nel Montefeltro.
Ha svolto una lunga ed eclettica carriera di giornalista: ha lavorato come redattore in una delle prime radio libere di Bologna, per quotidiani e periodici, per 26 anni ha collaborato con la maggiore casa editrice italiana di riviste tecniche, è stato addetto stampa di fiere nazionali e internazionali, associazioni e organizzazioni, copywriter per agenzie pubblicitarie e aziende.
È consigliere dell'associazione Ozio creativo ed è stato presidente dell'associazione D'là de' foss. Appassionato di slowtrekking è autore del programma Culturanatura, che sposa la filosofia di Otium nel Montefeltro. Ha pubblicato, tra l'altro, il “Manuale di corrispondenza aziendale” (Hoepli Editore) e la raccolta di racconti “Delitti minimi” (Clast).


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