Guida ai monumenti, Muglia, 1974
La casa di G. B. Vaccarini e l'edilizia civile
Porta Garibaldi |
I centosessantasette anni che corrono dal grande
terremoto all’Unità d’Italia si può dire furono impiegati per riedificare ciò
che il terremoto aveva distrutto in un attimo; e se si pensa al numero
incredibile di avvenimenti storici che si susseguirono in questo lasso di
tempo, ci si stupirà delle bellezze della città, bellezze che sembrano essere
una sfida contro l’oppressione e la miseria e un’ esaltazione della parte
migliore dell’uomo.
Non era ancora trascorso un ventennio dal terremoto,
che la guerra di successione spagnola si concludeva col trattato di Utrecht (11
aprile 1713) che riconosceva Amedeo II di Savoia re di Sicilia. Questi la cedette
all'Austria in cambio della Sardegna. L’isola non fece neppure in tempo a
cambiare padrone che la guerra di successione polacca finiva con la Pace di Vienna (1735) e la Sicilia veniva assegnata a
Don Carlos III di Borbone, sovrano di Spagna. I Borboni la governarono con il
titolo di «rex utriusque Siciliae» finché, nel 1816, Ferdinando IV non la fuse
al regno di Napoli creando il Regno delle Due Sicilie e assumendo il nome di
Ferdinando I. A questi mutamenti politici bisogna aggiungere le calamità
naturali che hanno continuato ad affliggere Catania (ricordiamo il tremendo
terremoto del 1818). Ciononostante, i catanesi hanno sempre trovato la forza di
reagire sia alle avversità naturali, sia ai soprusi dei dominatori.
Mal sopportando l’inetto e paternalistico dominio dei
Borboni, i catanesi si ribellarono nel 1837 e nel 1848; molti furono inoltre i
cittadini che indossarono la camicia rossa dei garibaldini e, quando il 31
maggio 1860 la città venne annessa all’Italia, non furono certo molti i nostalgici
dell'«ancien regime».
La rivolta del 1837 è ricordata da una lapide posta
nell’attuale piazza dei Martiri e dedicata alla memoria degli otto liberali
fatti fucilare dal ministro borbonico Del Carretto. Al centro della piazza
sorge una colonna posta di fronte al mar Jonio e proveniente dal Teatro, sulla
cui sommità è posta una statua raffigurante «S. Agata che schiaccia l'Idra
della peste», eretta nel 1743
a ricordo di una luttuosa epidemia. L’opera è dello
scultore Michele Orlando.
Un edificio di periodo borbonico sorge in piazza
Majorana all’incrocio tra le vie Antonio di S. Giuliano e Ventimiglia. Si
tratta di una costruzione che possiede tutte le caratteristiche tipiche
all’edilizia militare in quanto venne edificata ad uso carcerario. La prigione
si presenta su pianta quadrata con al centro un ampio cortile e sui prospetti
tre file di finestre munite da inferriate. Venne fatta edificare sotto
Francesco I re delle due Sicilie intorno al 1830 come indica la targa posta
sopra l'ingresso.
Prima del terremoto il quartiere «Civita» non aveva
l’attuale aspetto di zona prevalentemente abitata da miseri pescatori, bensì vi
s innalzavano le case e le ville di quasi tutti notabili cittadini che, sin dal
medio evo, l'avevano scelto a loro sede per la bella vista su mare e la
frescura della vegetazione. Distrutto interamente dal sisma (salvo palazzo
Biscari) il quartiere, la nobiltà fece ricostruire i suoi palazzi sulle tre
nuove strade principali tracciate dal piano regolatore: il «Corso», oggi via
Vittorio Emanuele, via Ferdinanda, oggi via Garibaldi, e via Etnea. La zona
della Civita restava comunque un’attrattiva e un'oasi di pace per chi avesse
voglia di vivere lontano dal chiasso delle strade principali; ed è proprio qui
che G. B. Vaccarini credette opportuno costruire la propria abitazione.
La casa, attualmente in uno stato di totale
abbandono, si erge a ridosso del palazzo Serravalle, dietro il collegio Cutelli
su un’area : sparsa di casupole mezzo diroccate, tra cumuli d’immondizia e il
fetore stagnante dei rifiuti perennemente abbandonati nella zona. La dimora non
è né grande né principesca, ma così armoniosa nelle linee da costituire senza
dubbio una delle migliori opere del grande architetto, una volta tanto libero
di esprimersi senza dover soddisfare le manie di grandezza dei nobili catanesi.
Nonostante i muri siano parzialmente rovinati e corrosi, e in parte addirittura
diroccati, si può ancora ammirare il portico avente tre archi a tutto sesto ai
quali si aggiunge un quarto tribolato, archi coronati dalla transenna che
limita la terrazza e sulla quale danno le stanze superiori.
Non lontano dalla casa, sulla piazza omonima, sorge
il collegio Cutelli, un bell’esemplare di costruzione realizzata da Stefano
Ittar, mentre del Vaccarini è il cortiletto circolare a porticato. Tra gli
edifici che sorgono in questa zona della via Vittorio Emanuele vi sono i palazzi
Valle e Serravalle, entrambi del Vaccarini; il palazzo Reburdone col cortile
disegnato dall’immancabile architetto palermitano; e il palazzo Bonajuto posto
all’angolo dell'omonima piazza. Sempre in via Vittorio Emanuele, ma sulla parte
occidentale, sorge l’austero palazzo Marletta (all’angolo con la piazza del
Duomo) e l'imponente palazzo Bruca (sul lato sinistro prima d’arrivare a piazza
S. Francesco) di cui è ammirevole l’altissimo portale a lesene accoppiate e il
cortile con una fontana posta al centro; sullo sfondo fa da scenografia un
portico in stile jonico.
La via Garibaldi, parallela al «Corso», è sempre
stata un’arteria vitale della città, sempre affollata di traffici e di
commerci. Ancora oggi, sebbene il centro della città si sia spostato più a
nord-ovest, i catanesi delle classi meno abbienti vi vengono, richiamati dalla
presunta politica di buon mercato che tradizionalmente vi si attua. La strada è
ricca di palazzi del '700, tanto da meritare più d’una semplice citazione.
Teatro Massimo Bellini progettato da Andrea Scala |
Apre la rassegna il palazzo dei principi del Pardo,
palazzo posto ad angolo con piazza Duomo a fianco della fontana dell’Amenano.
Ricco di decorazioni, sono interessanti le massicce cornici tipiche del barocco
catanese e i ballatoi ornati di sculture con maschere fantastiche.
Nelle vicinanze, in via Martino, una lapide ricorda
l’albergo in cui soggiornò Wolfgang Goethe dal 2 al 5 maggio 1787.
Andando avanti si incontra piazza Mazzini (ex piazza
S. Filippo) cinta da portici che sostengono delle estese terrazze dagli ampi
balconi. Nel realizzare quest’opera, gli architetti Stefano Ittar e Francesco
Battaglia utilizzarono 32 colonne provenienti dalla basilica romana scoperta
durante i lavori del convento di S. Agostino. Per il popolo catanese, piazza
Mazzini è «a chiazza de’ morti», in quanto sino a pochi anni fa vi si teneva un
mercato di dolci e giocattoli in coincidenza coi giorni della Commemorazione
dei defunti; ciò per l’antica tradizione di fare doni ai bambini il 2 novembre,
attribuendo ai defunti della famiglia la facoltà di donatori: una festa di S.
Nicola anticipata di due mesi! Al termine della strada si apre piazza Palestro,
nella quale troneggia Porta Garibaldi (meglio conosciuta come «u furtinu»). Si
tratta di un bell'esemplare di costruzione barocca realizzata in conci di lava
e pietra bianca di Siracusa, sormontata da un grande orologio coronato da un’aquila.
Ricchissima di ornamenti e di figure simboliche con mascheroni e trofei, tra
cui il rilievo di un elefante, simbolo della città che vuole essere esaltata
dalla porta (come indicano le scritte laterali: «Litteris armatur» e «Armis
decoratur»). La monumentale costruzione, opera di Francesco Battaglia e di
Stefano Ittar, venne eretta in occasione del matrimonio fra Ferdinando IV di
Borbone e Maria Carolina d’Austria (1768), e per lungo tempo fu chiamata «Porta
Ferdinanda»; dopo l’unificazione fu dedicata all’eroe dei due mondi. Rispetto
alla sua originaria progettazione, l’attuale sistemazione è molto alterata, in
quanto oltre che la Porta ,
tutta la piazza era strutturata in maniera assai diversa.
In un’incisione dei primi dell’ottocento, dovuta al
genio di Sebastiano Ittar, figlio e nipote degli architetti realizzatori, la Porta figura in mezzo alla
piazza ed è chiusa ai lati da due bastioni; nella parte mediana sono inseriti
due torrioni, due file di eleganti edifici bassi a portico fiancheggianti la
piazza, mentre il primo piano è realizzato a giardino con al centro un viale terminante
in due colonne sormontate da sculture con trofei di armature imbandierate.
Quando nel 1932 si procedette al restauro e ad
isolare la Porta
nella maniera che attualmente la vediamo, questa era inserita in modestissimi
fabbricati che ne deturpavano la visione.
Il monumento che i due architetti costruirono in
maniera sontuosa corrispondeva alla nuova arteria esterna che, dopo il terremoto
venne tagliata per rendere più comodo ed appariscente l’accesso a quanti
provenissero da Palermo. Così la
Porta sostituì il vecchio ingresso che era molto più piccolo
e risultava decentrato rispetto alla nuova strada. Di questa antica Porta sono
ancora visibili i resti che si trovano ubicati in fondo a via Sacchero. Si
tratta di un grande arco in pietra lavica stretto tra vecchissime case e
posizionato sul lato est, quasi parallelamente alla Porta Garibaldi. Il popolo
lo chiama ancora il Bastione o Fortino vecchio, in quanto ad esso anticamente
facevano corona i muri di cinta della città con relativi fortilizi per la difesa.
La prima e più importante strada tracciata dal Duca
Lanza di Camastra, inviato dal viceré Gian Francesco Paceco Duca di Uzeda, fu
via Etnea (che spesso il popolo insiste ancora nel chiamare «a strata ritta»)
che congiunge in linea retta il mare con le prime pendici del vulcano. Qui i
notabili e i patrizi più pretenziosi costruirono le loro comode e lussuose
dimore, che furono realizzate dai migliori architetti e che, pur facendoci
riflettere sulla vanità di coloro che invece di migliorare le condizioni del
popolo hanno speso il loro denaro per soddisfare il desiderio di sentirsi
«importanti», rimangono come una mirabile testimonianza dell’arte barocca.
Tra gli edifici di maggior pregio che, partendo da
piazza Duomo, si allineano sui due lati della strada, citiamo quello
appartenuto ad una delle famiglie nobili che ebbero, per secoli, sopratutto nel
cinquecento, un ruolo di grande preminenza nella vita pubblica della città,
ricoprendo molto spesso cariche politiche ed amministrative: i Gioieni,
discendenti da Arrigo d'An giò, consanguineo di Carlo I d’Anjou.
L’edificio è sito all’angolo fra via Etnea, piazza
Università e via Euplio Rejna. Attaccato al muro, sul fianco dell'ingresso
principale che si affaccia sulla piazza, un bassorilievo bronzeo (opera dello
scultore Mario Rutelli, del primo novecento) ricorda Giuseppe Gioieni d’Angiò,
grande naturalista (1747-1822).
Sempre sulla piazza, di fronte al palazzo dell’Università,
sorge un altro edificio di grande armonia architettonica, il palazzo dei
marchesi di S. Giuliano, oggi proprietà del Credito Italiano. Costruito dal
Vaccarini tra il 1738 e il 1745, nell’insieme ricorda un edificio del
Vanvitelli che si trova a Napoli, il palazzo Fontana Medina.
La Fontana di Plutone e Proserpina, opera dello scultone Moschetti, eseguita nel 1912 |
I San Giuliano, come i Gioieni, fanno parte di quel
gruppo di famiglie catanesi notabili suaccennate. Uno di essi, Antonio Paterno
Castello, marchese di S. Giuliano, fu statista insigne. Morì a Roma
nell’ottobre del 1914.
Sul prospetto dell'edificio che guarda via Euplio
Rejna una targa marmorea ricorda il famoso teatro dialettale di Catania
«Machiavelli», che fu la scuola iniziale di attori come Giovanni Grasso e
Angelo Musco.
Sul lato opposto fanno da cornice alla chiesa della
Collegiata due edifici, il secondo dei quali è quello di Casa Biscari. Quasi di
fronte, prima di giungere ai «quattro canti», si trovava un bel prospetto di antico
palazzo nel quale si apriva il balcone da cui Garibaldi lanciò il proclama «O
Roma o morte!». Essendo il palazzo gravemente lesionato, anziché restaurarlo,
si decise d’abbatterlo; attualmente si sta procedendo alla costruzione d’un
nuovo edificio che, secondo le autorità preposte alla fabbrica, sarà identico a
quello abbattuto (?).
Sullo stesso lato della strada sorge il settecentesco
palazzo Carcaci; di fronte a questo, il palazzo S. Demetrio che fu il primo ad
essere innalzato dopo il terremoto, come ricordato da due iscrizioni poste
nell'atrio e in cui figura il nome del proprietario (Eusebio Massa barone di S.
Gregorio e precettore della Valle dei Boschi).
L’edificio, in pietra bianca, è ricchissimo di
bassorilievi ed ornamenti ed è opera di Pietro e Francesco D'Amico e di Pietro
Flavetta. Quasi interamente distrutto dai bombardamenti aerei del 1943, venne
riedificato nel dopoguerra e possiamo considerarlo più una copia dell’originale
che un restauro.
Dietro palazzo Carcaci, sulla piazza omonima, si erge
maestoso uno degli edifici monumentali della città: il palazzo dei principi
Manganelli.
Sulla piazza Stesicoro, con una delle facciate che dà
sulla via Etnea, si staglia inconfondibile il palazzo Tezzano. Costruito nel
1724 da Alonzo Di Benedetto, il prospetto guarda l'Anfiteatro romano con il
coronamento turrito su cui appaiono; le teste di due mori col grande orologio
sotto le campane. Sino al 1880 il palazzo fu sede dell’ospedale di S. Marco,
poi sede del Tribunale e infine dal 1953 è adibito a scuola pubblica
Di fronte al palazzo Tezzano, e in posizione
identica, s'innalza il palazzo del marchese del Toscano. È una colossale
costruzione d’ispirazione rinascimentale, opera dell’architetto napoletano
Errico Alvino (1864). L'edificio sorge su un antico palazzo del Vaccarini,
ch’era del nobile Pietro Maria Tedeschi Bonadies. Gli sta vicino, tra la piazza
e il corso Sicilia, il palazzo del barone Beneventano (che in parte ne ricalca
lo stile).
All’angolo fra via Etnea e via Pacini sorge il
palazzo del principe del Grado, opera di Carlo Sada.
Superato l’ingresso del Giardino Bellini, la casa
dove morì Federico De Roberto e, di fronte (ad angolo con via Umberto I), il
prospetto della casa del barone Pancàri, anch’ essa realizzata dal Sada e di
gusto barocchetto.
Prima di giungere a piazza Borgo si incontra un’altra
opera del Sada, l’ex palazzo Libertini, e, quasi di fronte, l’Orto Botanico
(fondato nel 1858 dal prof. Mario Di Stefano) in cui si trovano molte culture
di piante rare, e una serra riscaldata per le piante tropicali.
Al numero civico 575, all’altezza del secondo piano,
una lapide ricorda la casa del poeta Mario Rapisardi (che vi morì il 4-1-1912).
Sullo stesso lato, cento metri più avanti, l’Ospizio dei Ciechi fondato da
Tommaso Ardizzone barone di Gioieni (1911) e del quale il grandioso complesso
porta il nome.
Si giunge così al «Tondo Gioieni», fine della via Etnea
e inizio d’un importante nodo stradale che congiunge la circonvallazione con le
arterie di smistamento per i paesi dell’Etna.
Questa la
Catania che seppero creare i nostri artisti del XVIII secolo.
Una città «salotto», ricca di opere d’arte e di monumenti superbi, di edifici
dall’euritmia sognata, cui si aggiungevano i «silenzi stradali» del tempo, il
traffico pigro delle carrozzelle che produceva rumori ovattati, senza la
frenesia attuale. Solo immaginando questo è possibile apprezzare in pieno tutte
quelle opere, incasellandole nel loro giusto posto di opere che assolvono in
pieno funzionalità ed estetica. Certo, le auto che hanno invaso la via Etnea
sfavillante di neon, rappresentano una realtà indiscutibile del nostro tempo.
Ma se accanto ad una di esse sonnecchia pigra una carrozzella da nolo, il
nostro occhio abbandona il mostro d’acciaio e si fissa a guardare
quell’immagine romantica che ci riporta ad antichi tempi, con simpatia ed
amore, come il volto di un familiare in una folla indifferente e forestiera.
Ciò deriva, forse, dal fatto che non è vero il detto che tutto il mondo è
paese, essendo la cosa, può darsi, al contrario; ossia che ogni paese possiede
un clima proprio.
Riprendendo il regolamento urbano della Catania dell’ottocento,
potremo rivivere il traffico e le vecchie usanze dell’epoca. È opportuno non-
perdere di vista i monumenti passati in rassegna, e con essi raggiungere la
riva dell’ottocento. Si sgombrino perciò idealmente dai traffici attuali le vie
della città, si spengano le luci elettriche e al posto degli affollati caffè e
dei negozi variopinti ricollochiamo le botteghe scure e le osterie, che
sorgevano alla «rotonda» o al «corso». Si fissi il pensiero sulle strade
illuminate da fanali a gas, lungo le file dei palazzi barocchi più superbi
delle moderne costruzioni, con l’illusione di vedere i vecchi «landaous» ed
incontrare geni immortali come Rapisardi e Tempio. Si avrà così l’impressione,
al crepuscolo, di ritrovarsi in una cittadina di provincia, dove tutto è
rimasto intatto ed immutato. E saremo tornati indietro nel tempo.
Così fantasticando si ha un’idea dell’antica Catania.
Nell’agosto del 1853, il Comune approvava, sotto gli
auspici dell’Intendente della città, un regolamento di polizia urbana, atto a
tutelare il traffico stradale. Esso entrò in vigore nel 1860, rendendo arguta
l’atmosfera ottocentesca e romantica di un periodo calmo e silenzioso, almeno
per quanto riguarda il traffico:
«...Coloro che lasciano fuori della propria
abitazione nelle ore notturne i cani, che con i loro urli e latrati turbino la
quiete pubblica, andranno soggetti al pagamento da uno a tre ducati di multa...
Coloro che situassero mangiatoie nelle strade, o tenessero gli animali legati
alle statue o alle dansure di ferro delle chiese, saranno multati dì carlini
ventinove... Nel largo della marina, le carrozze, le carrette da trasporto ed i
cavalli debbono correre la passeggiata, tra il muro del seminario e la prima
fila degli alberi, senza entrare nel secondo viale, pena al contravventore di
quaranta carlini. Esigibili anche dal proprietario del mezzo, salvo a costui la
facoltà di farsi rimborsare dal guidatore... Il mercato di lunedì in piazza
Stesicorea debbasi svolgere in perfetto ordine..., si avrà cura di lasciare
libero il passaggio della strada principale da parte degli ambulanti».
Questo il fondo retrospettivo in cui si plasma il
traffico urbano della vecchia Catania. Naturalmente, riaprendo gli occhi e
tornando alla realtà dei nostri giorni, tutto ciò appare anacronistico, eppure
questa nota la crediamo utile per meglio capire cosa fosse la città di un tempo.