Pellicanolibri, 1980 |
Per la prima volta veniva edito in Italia (Pellicanolibri,1980) un libro di Manuel Vázquez
Montalbán, "Manifesto subnormale", ancora disponibile richiedendolo sul sito dell'Editore.
L'autore prematuramente scomparso è diventato celebre nel nostro paese soprattutto per i gialli, tanto che Camilleri ha dato il suo nome al commissario protagonista dei suoi tanti romanzi.
Sebbene il testo è stato inserito nella collana "La nave dei folli" non deve far pensare ad un libro divertente e\o assurdo. Questa che pubblico è la prima parte, attuale ancora oggi con la speranza che questo autore continui anche ad essere letto in italiano nella saggistica, così poco tradotta.
Questo è uno dei libri che altra casa editrice, senza alcuna comunicazione a Pellicanolibri, lo ha ripubblicato nel 2000, utilizzando la stessa traduzione e lasciando persino quasi le stesse parole del retro copertina
"Manifesto subnormale"
Vi è
un'attività intellettuale che conduce all’invenzione dell’ombrello, dello
spazzolino da denti, dell’acqua pesante, dell’uranio arricchito e delle
minestre scaldate. Vi è un altro tipo di attività intellettuale che conduce a
formulazioni gratuite come: Se Dio è morto, tutto è consentito. Ma Dostoevskij
già sapeva che la ferocia semantica di La
morte di Dio era poco più che uno sfoggio espressivo. A Dostoevskij era
consentito molto meno di quanto fosse consentito allo zar e assai meno che ai
Gordon Bennet, che a quell’epoca erano già riusciti ad avviare un rimarchevole
mercato giornalistico. E dar nome alle cose che già esistono è l’unica risorsa
di questo sforzo intellettuale che consiste nel creare paradisi artificiali di
linguaggio. L’autore di un ritornello popolare risolve la sua impari lotta con
la realtà scrivendo:
Si vive solo una volta
bisogna imparare ad amare e a vivere.
Nello stesso
periodo Cesare Pavese sublima il suo terrore della realtà con un diario,
falsamente sincero, che intitola II
Mestiere di Vivere. E Sartre aveva trasformato un consimile terrore nel
monumento linguistico di L’Essere e il
Nulla. La magia della parola è l’unica forza che gli intellettuali
speculativi possono opporre all’oscenità del reale. Di tutti gli abbagli che
prende l’intellettuale uno solo è grave: credere di aver compreso qualcosa per
il mero fatto di essere stato capace di ordinare un determinato segmento di
linguaggio.
E a partire
dal secolo XIX, sulla artificiosità di questo rapporto truccato fra il poeta
(si chiami Kant o Pérez Galdós) e la realtà si adatta una sovrastruttura
d’artificio costruita dal critico della cultura. Questo manager di pugili non è
servito neanche a gettare la spugna in tempo. Ha creato una super poetica per
la quale ha utilizzato sfacciatamente le trovate, di per sé precarie, del poeta
e, contagiato dal razionalismo legislatore, si è adoperato a creare leggi e
motivi del comportamento poetico, sino al punto che, sotto la sua influenza, il
poeta ha teso a sapere cosa si aspetta da lui il critico prima ancora di sottoporsi
allo spaventoso conflitto con il reale. In tal modo la battaglia ha avuto
inizio sotto il condizionamento della canzone, che già si presumeva quale
paesaggio melodico della fuga. Ogni poeta ha affrontato la lotta con la canzone
già composta per metà dalla critica. E, dopo i combattimenti, l'intellettuale
si è messo a cantare versi ogni volta più isolati dal pubblico, cosi come si
intendeva il concetto di pubblico al tempo in cui il terrorizzato Nietzsche
credeva che la socializzazione fosse il castrante rasoio sospeso sui suoi
minacciati testicoli. E se le duchesse della III Repubblica francese si fossero
dipinte il petto di porporina e l’avessero mostrato di più della piccolezza
nuda delle loro ripugnanti testoline, il diritto alla soggettività non sarebbe
stato rivendicato da impertinenti simbolisti di transizione, e la letteratura,
la filosofia o la conversazione colta sarebbero morte in quanto forme di
espressione. Grazie all’abulia delle classi dirigenti, la poesia è
sopravvissuta sino ai nostri giorni, giorni per essa infausti, perché si
moltiplicano a limiti allarmanti il numero di cittadini che non si pongono il
problema di mediazioni espressive fra il loro terrore e la realtà e si decidono
alla formula di fare della loro vita un’invenzione poetica e di mutare le loro
orecchie, le loro chiome, i loro culi, i loro occhi truccati, in segnali della
loro presenza, innalzata a dignità di strumento espressivo.
E ai nostri
giorni una nuova formula espressiva sembra destinata a ereditare l’importanza
della morte di Dio nel commercio
delle parole. Si tratta della morte dell’uomo, del requiem dell’umanesimo
ottocentesco intonato da intellettuali atterriti dal fatto di chiamarsi
Foucault e non Werner Von Braun. Ne deriva che la disillusione è un diritto
storico e persino un sapere categorico quando venga formulato in un contesto
espressivo legittimante. E il decretare la morte dell’uomo, senza dubbio, era
già stato previamente predeterminato dalla ottocentesca morte di Dio.
Quale uomo è
morto?
Non certamente
il ricuperato uomo-misura, quello chiamato dagli alchimisti rinascimentali:
misura di tutte le cose. Questi mori nelle sale di tortura del Palazzo dove
viveva il Principe di Machiavelli, nelle fangaie della Boemia durante la Guerra dei Trent’anni, annegato
nell’Elba durante la ritirata della Grande Armala.
Quale uomo è
morto?
Non certamente
Robinson Crusoe, il commerciante naufrago che riuscì come Groucho Marx, ad
arrivare dal nulla alla più assoluta povertà, e che fece dell’arte di
sopravvivere una morale chiusa in se stessa. Robinson mori nel cannoneggiamento
dei porti della Cina in difesa del libero commercio dell’oppio, nelle guerre
imperialiste e vittoriane; finito a colpi di monopolio.
Quale uomo è
morto?
Non certamente
l’enfant terrible che si era seduto
su sedie di parole e aveva lanciato stoccate contro nubi all’essenza di
violetta nei retrobottega dei caffè-concerto, trafitto dallo spillo da cravatta
di Apollinaire. Questi morì durante la prima o la seconda guerra mondiale,
distrutto da una mezza radiazione atomica infiltratasi in un boccone di
formaggio affettato.
Quale uomo è
morto?
Non certamente
il pioniere di Leningrado, l’affilastoria di Come fu temprato l’acciaio, il
padre-nipote-figlio-fratello-compagno di Dolores Ibarruri, vestito con
l’uniforme di Uomo Totale. Questi morì nei corridoi del Ventesimo Congresso,
assassinato da un’occhiata glaciale di Suslov, iniettata del vomito nero dello
Spirito di Camp David.
Quale uomo è
morto?
Oso sospettare
che la morte sia un uomo vietnamita, un bambino del Biafra, una ragazza
dell’Estremadura che bevve candeggina perché un ragazzo dell’Estremadura le
sollevò le gonne e le mise un diavolo in corpo. Questi sono i morti che
conosco, e, soprattutto, questi sono i morti che riconosco. Gli altri sono nomi
senza realtà in cui cadere morti; servirono perché la storia dimenticasse per
un momento la quantità di morti che costava la sua avventura, gli investimenti
di dolore e di vita che è costato ogni salto di qualità. L’uomo rinascimentale
servì a distrarre lo sguardo dai corpi esatti delle leve di Carlo V o di Luigi
XIV. L’uomo liberale servì a distrarre lo sguardo dai corpi esatti del
proletariato presindacalizzato; l’Uomo Totale servì a distrarre lo sguardo dai
corpi esatti sacrificati ai guasti del centralismo democratico o all’unico
slancio rivoluzionario internazionalista che ebbe Stalin: esportare un
assassino per fendere come un frutto la leonina testa di Trotzki, E quest’Uomo
disumanizzato, pedina soddisfatta nell’ingranaggio del meccanismo neocapitalista
o neosocialista, serve a distrarre lo sguardo dai corpi vietnamiti o biafrani,
gonfiati dalla morte o dalla fame. Quest’astrazione, quest’essere prefabbricato
dalle statistiche e dai piani di sviluppo, è un essere imperfettamente
localizzabile nel ghetto occidentale. A partire dalla sua soggettività,
sospettosamente astratta, si è cercato di dare un senso alla morte della
passione e dell’entusiasmo come segni esterni di una morale progressista.
Dinanzi all’impossibilità di distruggere la Storia stabilita e dinanzi all’impossibilità
razionale di accettare questa impossibilità come una caratteristica
condizionata da una realtà meramente locale, dall’ombelico della Storia,
dall’ombelico dell’Occidente, a sua volta ombelico storico essenziale, si decreta
l’evidenza dell’evidenza, l’assunzione di ciò che è stato assunto, la
distruzione dell’orizzonte come prova del fatto che non c’è bisogno di orizzonte.
Storicamente
parlando, ogni condanna è una sostituzione. Formulare una condanna a morte, di
Dio o dell’Uomo, obbliga ad una sostituzione. E l’unica sostituzione che si
produce dopo la morte dell’Uomo conduce alla stabilizzazione del Sistema. Si
sostituisce un equivoco assoluto con un’evidenza univoca. Si desiste
dall’impugnare un’astratta torcia linguistica, (l’Uomo) e si accetta sulle
proprie spalle il peso di un’evidenza con cui occorre scendere a patti (il
Sistema). Tutto ciò lo si fa senz’altro diritto che quello fornito da una
cultura convenzionale che crea uno spirito di proprietà privata della Logica
Storica. L’Uomo è stato un’astrazione filosofico-morale finché non è divenuto,
precisamente, una meta storica con percorsi già segnati. Vi è un’idea dell’Uomo
che appartiene alla cultura borghese, un’idea distrutta dalla realtà, e più
esattamente, dalla pratica del potere borghese. Non è che l’umanesimo
ottocentesco succeda a se stesso e passi come una fiaccola olimpionica dalle
mani di Daniel De Foe a quelle della Madre di Gorki. La fiaccola della Madre di
Gorki ha solo un nesso storico in comune con quella di De Foe, il nome.
L’aggettivazione è radicalmente diversa perché altera radicalmente la sostanza
stessa del nome. E se la conferma della sconfitta storica dell’ideale
umanistico della borghesia è divenuta evidente, si è fatta realtà, attraverso
più di un secolo di dominio storico, nessuno può dire lo stesso del nuovo
umanesimo nato proprio come suo antagonista.
Ed è
falsificare le proprie motivazioni il ricorrere alla truffa degli atteggiamenti
che non necessitano di garanzie, dire non
è questo e dedurne immediatamente una negazione assoluta. No. Non è questo.
La fiaccola della Madre di Gorki non illumina i boulevards europei. Nei
Drugstores non si vende questo prodotto. È stato impossibile far entrare nel gioco della cosificazione il
sentimento collettivo di una classe. È
un sentimento che non si canta più in tedesco, o in francese (nonostante le
eccezioni), o in russo (nonostante le differenze). Tra l’altro abbiamo perduto
l’egemonia dell’emozione e della passione, l’egemonia del sentimento, dipingendo
a colori la bandiera della verità. È
stato un rozzo tranello alla propria coscienza razionalista, quello che si è
teso la intellighenzia europea. Battuta nella II Guerra Mondiale, soppiantata
dal manager e dal burocrate, ha fatto ricorso alla facile vittoria del cinismo
relativizzante, paradossalmente dogmatico e apostolico. Nel 1945 questa
intellighenzia europea era convinta che tutto fosse possibile. Nel 1945, è un
fatto, prendendo le mosse da certe convenzioni tutto era possibile. Una buona
parte dell’umanità aveva vinto una guerra collettivamente. Una buona parte
dell’umanità si apprestava a vincere una rivoluzione che avrebbe reso possibile
la comparsa dell’Uomo Nuovo. Alcuni teorici preconizzavano la fine di una lunga
preistoria di cui era stato protagonista 1’homo
sapiens e l’inizio della Storia che avrebbe condotto all’Uomo Totale.
Questa fantasticheria umanistica sarebbe stata possibile, previo il trionfo
rivoluzionario, previa la distruzione dell’ordine borghese-capitalista, previa
la costruzione del socialismo su scala planetaria.
Nel 1945 i
termini del ragionamento avevano la medesima presunzione linguistica che
avevano ereditato dalla metodologia cartesiana e dall’empirismo. La realtà si
trasforma attraverso l’analisi di alcune esperienze, e l’azione attraverso
alcuni presupposti.
Ma cadde la
bomba e si stabilì un Supersistema.
Un
Supersistema che legittimava l’idea di essere pervenuti allo zenit dell’impossibilità
della Dialettica. Era urgente tradurre ogni conflitto in competizione per evitare
l’ultima Parola. E fra tutte le paralisi, la più urgente era quella della
coscienza personale. Non si sarebbe più partiti dall’esercizio di una volontà
misurabile con una misura umana, ma dalla logica del Supersistema. Una logica
basata sul calcolo delle probabilità di mutua distruzione, mascherata dal
linguaggio protocollare: distruzione-dissuasione. E l’equilibrio del terrore
rappresentato dal ping-pong atomico presto mancò di qualsiasi significato
umanistico. Presto non fu più in gioco l’equilibrio tra due concezioni della
Storia e dello uomo, ma quello tra due sistemi. E questa convenzione divenne a
sua volta un Supersistema logico per interpretare gli atti e le
rappresentazioni.
Dinanzi alla
necessità di moratorie per ogni tipo di vittoria, l’intellighenzia europea
tardò qualche tempo non già a porre in relazione l'effetto e la causa, ma a
chiarire sufficientemente la nuova base qualitativa che richiedeva
l’interpretazione della Storia. Occorre dire, a sua discolpa, che gli
epifenomeni circostanti le davano appena il tempo di respirare. Non appena le
mitragliatrici furono tornate agli arsenali, le bandiere nelle vetrine e gli
eroi al loro paese, il Piano Marshall
innalzò le barricate anticomuniste della ricostruzione europea. I classici del
marxismo avevano cercato di conciliare le tesi contrapposte secondo cui la
rivoluzione è possibile a seguito di un elevato livello di coscienza operaia o che la rivoluzione è possibile in
condizioni di estremo depauperamento. Formulate così, queste tesi non si contraddicono,
ma una volta mediate dalla prassi capitalista e dalla sua capacità di
assorbimento, sì. Perché un elevato livello di coscienza operaia richiede
un’infrastruttura industriale considerevole, e questa mette in grado il
capitalismo di fare la beneficienza di alti salari, di una “politica sociale”
dall’alto, consentendogli alla lunga di ottenere un consenso implicito nel
comportamento integrato della classe operaia e distruggere infine la coscienza
di classe, se non totalmente, almeno nel livello di aggressività senza il quale
una rivoluzione è un gioco da salotto.
Diversamente,
in situazione di depauperamento i mezzi nelle mani della borghesia sono
esplicitamente repressivi e suscitano, quale contromisura, una risposta
insurrezionale. Marxistizzati sino ad un livello conveniente, gli strateghi
politici del Dipartimento di Stato ricostruirono i meccanismi di base del capitalismo
europeo per tornare, il più presto possibile, al paradiso industriale. Il
silenzio relativo della classe operaia in questo periodo si spiega solo con il
bavaglio del Supersistema. Ed è che il sistema tirava fuori la bomba dalle
mutande ogni volta che la dialettica superava gli argini.
La
“dissuasione reciproca” fu, rispetto alla posizione di antagonismo fra
capitalismo e comunismo, ciò che era stata la guerra di trincea rispetto alle
battaglie in campo aperto che avevano predominato sino alla Prima Guerra Mondiale.
L’Occidente costruì belle trincee di palazzi di vetro, luci al neon, barriere
metalliche nei supermarket, università con piscina olimpionica. Formò l’organizzazione
sistematica di una cultura di massa governata dai mass-media e l’emarginazione
accelerata della cultura minoritaria. Assai presto l’ideologia della
non-ideologia fu il sostrato alimentare del giudizio del cittadino, e presto la
disillusione fu il sostrato alimentare del critico della cultura e alla lunga
dell’artista stesso. Si trattava di un’insoddisfazione motivata da una
cosmologia truccata, decretata dal disorientamento che generavano le
labirintiche trincee del neo-capitalismo. Non rimaneva neppure la risorsa di
un’estetica rivoluzionaria organizzata o almeno tracciata a grandi linee. Per
quante fossero le proiezioni retrospettive della Corazzata Potiomkin, nulla
riusciva a mascherare l’atmosfera petit-bourgeoise
delle feste de “L’Humanité" alla periferia di Parigi. Le forme culturali
del Supersistema impregnavano tutto; la loro saggezza convenzionale riempiva le
tasche di monete per le macchinette mangiasoldi della verità. L’élite di Parigi
assisteva alla riapertura dell’Opéra previo il viaggio in un rigoroso metro,
senza che il giorno dopo la CGT
decretasse l’incendio della città. Come poteva bruciare Parigi senza che sullo
scacchiere l’altro giocatore non esigesse, in compenso, l’incendio di Praga?
Nulla è più
inutile di due pugili impauriti che fingono un combattimento di astuzia senza
mai sfiorarsi il viso. I critici della
cultura presenziavano alla lotta senza osare trarne le conseguenze. Poco a
poco la passione fu sostituita dall’angoscia, dal desiderio di lanciare la
spugna dei due pugili e squalificarli. Dagli echi lontani degli operai inglesi
dello Yorkshire e Lancashire sino agli ultimi focolai di resistenza, il
ritratto daumieriano della rivoluzione in ascesa aveva nascosto le serate grigie,
le ore mediocri dell’atmosfera storico-culturale. Ma passavano i minuti della
lotta e le gambe continuavano nella loro finzione di futile agilità, mentre i
pugni non riuscivano a centrare il mento sfuggente.
La realtà
tornò un giorno a essere amorale; fu un fatto evidente impostosi d’improvviso,
e che inesorabilmente portò a comprendere l’amoralità Storia. Priva
dell'emozione e della passione che può comunicare soltanto la moralità, la Storia si limitava ad
essere una proposta di linguaggio, una serie di segni esterni che traducevano
il significato arcano di certi atteggiamenti. L’idea del progresso smetteva di
avere senso perché in realtà riposava sull’idea di assoluto. I pugili
continuavano il loro combattimento fatto di fughe, consultavano i loro computers,
le loro squadre di esperti. Il momento della scazzottata non era venuto, e
probabilmente non sarebbe arrivato mai.
E la viltà
smise di avere un senso peggiorativo per essere una semplice struttura
normativa dalla quale bisognava partire per comprendere i comportamenti
sociali. Una volta ancora la borghesia, la ricca dama, ormai ridotta a un
minuscolo torrione oligarchico, con gruppi e sottogruppi giù giù sino alle profondità
abissali del proletariato, sceglieva il terreno della competizione e le regole del
gioco. Smontava i piani del vecchio internazionalismo in collaborazione con
l’Unione Sovietica. Occorreva una pace augusta universale per chiedere silenzio
un istante e aprire le piroette spaziali. L’equiparazione dei livelli
tecnologici consentiva di continuare l’insipido combattimento a livelli
galattici. E per l’emarginata intellighenzia occidentale nulla era possibile. I
canali che potevano fornire il salto di qualità dall’idea trasformata in
energia al suo essere abbracciata dalle masse, erano ostruiti o falsificati
dall’organizzazione della cultura. Non esisteva neppure una volontà di
linguaggio comune, né una volontà di prescindere dal linguaggio dei tempi
verbali. La vana paroleria marxista era divenuta qualcosa di tanto esasperante
quanto la vana paroleria liberale di Franklin D. Roosvelt o dell’avvocato dei
Rosenberg quando disse: “Oggi è morta la democrazia americana”.
La storia
senza morale aveva necessità di una ristrutturazione ; tutto sommato, gli
obiettivi dell’umanesimo redentore erano stati una strategia borghese che in un
determinato momento aveva prodotto i benefici che l’“uomo-borghese” si
aspettava. E così come i programmatori della metropolitana di Mosca avevano
copiato la magnificenza eclettica della borghesia dei grattacieli, il proletariato
si limitò a vestire di azzurro operaio il bambolotto umanistico della
borghesia. Occorreva uccidere l’idea dell’uomo, e a giustificare la strage
veniva nuovamente in soccorso un’idea di beneficenza: quest’umanesimo
idealizzante non ha fatto altro che propagare una comprensione efficace del
gioco sociale, politico e tecnico, e in definitiva ha rinviato una promozione
reale dell’uomo storico attuale.
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