La leggenda del Colibrì di Alessandra Tucci

 Era una calda giornata estiva, caldissima più che calda. Bollente.

Di quelle in cui non si ha neanche l’energia di pensare che forse un qualche pensiero sarebbe pure il caso di pensarlo. Così, tanto per diversificare l’apatia. Vivificare la flemma insomma.
Gli animali giacevano tutti all’ombra di qualcosa, anche il filo d’erba se l’erano giocato a dadi.
La savana ha spazi ampi ma frescure circoscritte.
Niente assembramenti  però, per carità, in quella specie di giungla dal nonsenso predatorio di tolleranza non è che ce ne fosse in quantità. 

Zampa a zampa sì, ma senza sfiorarsi che i predatori non ammettevano alcuna confidenza da parte dei predati.
Non che in quella specie di pentola a vapore avessero una qualche velleità di cacciarli, non avevano energie neanche per spostarsi.  Giusto le rane le avevano trovate per darsela a zampette,  si erano un po’ stufate di farsi bollire a fuoco lento dal primo venuto. Fosse pure il sole spacciatosi per vita salubre, quelle col trabocchetto della cottura a fuoco lento avevano già abbondantemente dato.
Che facesse caldo non è che sorprendesse in realtà, il caldo lì era la tassa fissa da pagare.

Ma questo era un caldo strano, diverso, saliva con il discendere del sole. Incomprensibile.
E nei paraggi non c’era neanche la volpe a mettere a disposizione di quel consesso di vigorosi benpensanti il suo acume ad offrire una qualche soluzione. Magari, volesse il cielo,  salvifica. A dare una svegliata con qualche lampo di intuito, una qualche spiegazione a quell’aria che ammazzava velleità voglie e istinti primordiali. Anche la volpe se n’era già bella che andata, questo è quanto.

C’era il fumo, questo sì, quanto se ne voleva. Nero, denso, fastidiosamente acre.
Profondamente irritante. E non è che i predatori in quel circolo di forestali anonimi ma boriosi non fossero facili all’irritazione, una foglia calpestata male e quelli scattavano su come belve. O facevano scattare le compagne che era meglio. O un qualche ringhio.
In questo caso a onor di cronaca levavano latrati più che ringhi. Che ricadevano sistematicamente loro addosso.  Insieme a laute manciate di cenere.  Ad imbiancare. Criniere peli ali erba e foglie. Quelle rimaste.

A volte la manna, tal altra la cenere. Ad ogni buon conto, è sempre il cielo a far piovere allerta e soluzione. In testa agli orbi. Urbi et orbi.
Ma rimanevano comunque tutti acquattati.
Re e corte intera non davano cenno di una qualche concreta iniziativa, di quelle regali, tutti gli altri zitti e muti quindi, una disobbediente sgranchita di zampe magari verso un filo d’acqua a rinfrescarsi non sapevano proprio come motivarla. Non sapevano scrivere, figurarsi se sapevano firmare le proprie giustificazioni.
Niente rane, nessuna volpe, la leonessa s’era stancata di quel reuccio imbelle che si lasciava imbiancare la criniera senza alitare e se n’era andata e farsi lucidare la sua di peluria.

Non si capisce cosa chi come, non si capisce da dove sia arrivato il guizzo di prestanza, eppure il re leone e il suo team di predatori di fiducia sono scattati in un lampo tutti sulle zampe. Così, all’improvviso e in contemporanea, dritti e bruciacchiati.
Cos’era tutto quel caldo che li stava abbrustolendo?
Anzi che finalmente una domanda se la sono fatta.

Si sono guardati attorno e si sono pure illuminati:  un incendio pauroso gli stava deforestando la frescura, un’altra mezza dozzina di minuti di bivacco nella siesta pomeridiana e finivano  deflorati pure loro. Con tutti i gingilli e gioielli di famiglia.

Il re dal cuor di leone fu il primo. Dritto verso il grande fiume, a zampe levate. Doveva pur aprire la strada e guidare sudditi e reggimento. Al fugone.
Al seguito regale praticamente tutti. Elefanti, zebre, rinoceronti, gazzelle, tigri, antilopi. Insomma, tutti.
Tutti e il Colibrì nella sua nota prestanza di due grammi. 

Solo che tutti si catapultavano in direzione acqua, il colibrì volava verso le fiamme. Un sovversivo.
Un suicidio che non andava per niente a genio a quel genio del re leone e alla sua scorta: se quell’uccelletto lanciava la moda dell’harakiri a loro non rimaneva più carne fresca da (far) predare.
Un ringhio quel “dove vai!” quando il colibrì gli passò sulla criniera regale.
Una grassa risata in risposta alla risposta dell’uccellino.  E come dargli tolto questa volta al re.
Il colibrì si era tuffato nel fiume mentre tutti giacevano inerti ed ora stava volando sulle fiamme. A lasciar cadere la goccia d’acqua raccolta durante l’apatia generalizzata.

Ottimo, bravo, da applauso.
Come pensava di riuscire a spegnere le fiamme quella pulce volante? Da solo oltretutto? E dai.
Solo però non lo rimase a lungo.
Incurante di ironia scetticismo e sarcasmi vari, il piccolo colibrì si rimise al lavoro.
Giù nell’acqua, su nel cielo, dritto verso l’incendio, giù la goccia d’acqua sulle fiamme.
Da ovazione insomma. Non foss’altro per quel suo incedere cocciuto tra le fiamme e il fumo. Controcorrente come tutti i supereroi che si rispettano. Quelli dei fumetti, giusto lì se ne trovano ancora.
Solo che i fumetti nella Savana se li erano passati un po’ tutti i piccoli. Sottobanco.

E uno ad uno, forti dell’esempio, si associarono all’uccellino. Tronfi e fieri. Incoscienti insomma, di quell’incoscienza che ti scortica il pelo per l’irritazione perché lo sai, oh se lo sai, che prima o poi li devi imitare se non vuoi fare la figura del meschino.
Ma torniamo ai piccoli che i grandi sono sempre gli ultimi ad arrivare. Alla soluzione.
Un elefantino si staccò dalle massicce sottane della madre e si precipitò – oddio, con i suoi tempi – a dare il proprio contributo con il suo superpotere:  la proboscidina. La immerse dentro il fiume e aspirò, aspirò, aspirò. Per risputare subito dopo tutto sul cespuglio più vicino, spegnendo almeno lì quel fuoco inceneritore.

Senza nulla voler togliere al beccuccio del colibrì, grazie al cielo arrivò anche il beccone del giovane pellicano.  E poi il pelo dell’imberbe leoncino che lui inzuppò per benino e poi si scrollò di dosso. Accanto al fuoco. E il manto del tigrotto, lo zebrotto quasi ci si giocò le strisce, quelle nere, nell’avvicinarsi quanto più possibile alle fiamme, la gazzelletta fece quello che poté ma comunque non si tirò indietro. E il rinocerontino, la piccola antilope, la scimmietta, il leopardino. L’aquilotto ci arrivò dritto dai monti a dare una mano, in picchiata.
Tutti i cuccioli al lavoro, era una festa.
C’è solo da immaginarselo l’orgoglio che lampeggiava negli occhi delle mamme. Altro che quelle mezze calzette di maschi con i quali si erano accoppiate, grandi grossi e fannulloni. Pure codardi.

Tolsero ai piccoli tutti i bavagli e bavaglini che li intralciavano e gli si affiancarono nel pompare e sparare acqua. Ovunque.
Il re leone adesso più che sarcastico era indispettito.
E quella tigre c’era venuta pure dal bengala a biascicargli nell’orecchio tutta la vergogna della scena.
Apocalittica, un quadro da fine del mondo, qui si rischiava uno stravolgimento epocale.
E se poi si riempivano di grilli tutte quelle teste e testoline scellerate e si mettevano a manifestare per una parità di diritti e doveri nella gestione forestale? Oddio, e se manifestando e manifestando si fossero esaltati arrivando a pretendere tutte le sciocchezze bandite dal reame? Equità sociale, pace, tolleranza e cooperazione in luogo della vigente legge del potere, quello del più forte?
Niente, c’era da scendere in campo. Subito. E riprendere scena e controllo. E muti tutti, al lavoro e in fretta.
Al calare della sera, le stelle tutte accese, l’incendio era completamente spento.
Figurarsi se il re leone non si affrettava  ad indire immediatamente un gran festone per accentrarsi meriti ed onori con la nota arte del lisciare il pelo altrui per lucidare il proprio.
Commovente il suo discorso regale alla folla, il colibrì accanto a lui.

Dunque, questa la scaletta dell’encomio.
Colibrì eroe, cuccioli eroi, le femmine sono l’anima del focolaio, insieme si vince, una goccia d’acqua è preziosa, tante gocce d’acqua fanno miracoli purché veicolate e non sputate a caso, siamo un grande branco, è restando uniti che andrà sempre tutto bene.
E la chicca finale.
L’impegno a costruire un mondo migliore dove ci sia posto per tutti, niente più violenza, nessuna guerra. Insomma, tutti fratelli nel rispetto e nella convivenza pacifica. Quindi, se tanto mi da tanto in una giungla, tutti vegetariani.

Neanche il bradipo che questo velocista di intuito non è ha creduto ad una sola parola dell’ennesimo grande proclama del re, figurarsi gli altri. Leone e tigre che si passano l’aceto per insaporire l’insalatina? Ma per favore.
Poco male, ai proclami vuoti erano più che abituati.
A loro, ai piccoli grandi esseri, bastava lo scacco matto dato al re e ai capi tutti. Per pochi attimi ma a pieno.
Ah, dimenticavo l’ospite d’onore.
Il colibrì non ci pensò minimamente a raccogliere onorificenze e accettare promozioni e partecipazioni al consesso dei gran capi. Lui non ce l’aveva la stoffa del capo, lui era solo un leader.

E per continuare ad esserlo doveva rimanere libero. E volare alto.

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