Era una calda giornata estiva, caldissima più che calda. Bollente.
Di quelle in cui non si ha neanche l’energia
di pensare che forse un qualche pensiero sarebbe pure il caso di pensarlo.
Così, tanto per diversificare l’apatia. Vivificare la flemma insomma.
Gli animali
giacevano tutti all’ombra di qualcosa, anche il filo d’erba se l’erano giocato
a dadi.
La savana ha
spazi ampi ma frescure circoscritte.
Niente
assembramenti però, per carità, in
quella specie di giungla dal nonsenso predatorio di tolleranza non è che ce ne
fosse in quantità.
Zampa a
zampa sì, ma senza sfiorarsi che i predatori non ammettevano alcuna confidenza
da parte dei predati.
Non che in
quella specie di pentola a vapore avessero una qualche velleità di cacciarli, non
avevano energie neanche per spostarsi. Giusto le rane le avevano trovate per darsela
a zampette, si erano un po’ stufate di
farsi bollire a fuoco lento dal primo venuto. Fosse pure il sole spacciatosi
per vita salubre, quelle col trabocchetto della cottura a fuoco lento avevano
già abbondantemente dato.
Che facesse
caldo non è che sorprendesse in realtà, il caldo lì era la tassa fissa da
pagare.
Ma questo era
un caldo strano, diverso, saliva con il discendere del sole. Incomprensibile.
E nei
paraggi non c’era neanche la volpe a mettere a disposizione di quel consesso di
vigorosi benpensanti il suo acume ad offrire una qualche soluzione. Magari,
volesse il cielo, salvifica. A dare una
svegliata con qualche lampo di intuito, una qualche spiegazione a quell’aria
che ammazzava velleità voglie e istinti primordiali. Anche la volpe se n’era
già bella che andata, questo è quanto.
C’era il
fumo, questo sì, quanto se ne voleva. Nero, denso, fastidiosamente acre.
Profondamente
irritante. E non è che i predatori in quel circolo di forestali anonimi ma
boriosi non fossero facili all’irritazione, una foglia calpestata male e quelli
scattavano su come belve. O facevano scattare le compagne che era meglio. O un
qualche ringhio.
In questo
caso a onor di cronaca levavano latrati più che ringhi. Che ricadevano sistematicamente
loro addosso. Insieme a laute manciate
di cenere. Ad imbiancare. Criniere peli
ali erba e foglie. Quelle rimaste.
A volte la
manna, tal altra la cenere. Ad ogni buon conto, è sempre il cielo a far piovere
allerta e soluzione. In testa agli orbi. Urbi et orbi.
Ma
rimanevano comunque tutti acquattati.
Re e corte
intera non davano cenno di una qualche concreta iniziativa, di quelle regali, tutti
gli altri zitti e muti quindi, una disobbediente sgranchita di zampe magari
verso un filo d’acqua a rinfrescarsi non sapevano proprio come motivarla. Non
sapevano scrivere, figurarsi se sapevano firmare le proprie giustificazioni.
Niente rane,
nessuna volpe, la leonessa s’era stancata di quel reuccio imbelle che si
lasciava imbiancare la criniera senza alitare e se n’era andata e farsi
lucidare la sua di peluria.
Non si capisce cosa chi come, non si capisce da dove sia arrivato il
guizzo di prestanza, eppure il re leone e il suo team di predatori di fiducia sono
scattati in un lampo tutti sulle zampe. Così, all’improvviso e in
contemporanea, dritti e bruciacchiati.
Cos’era tutto quel caldo che li stava abbrustolendo?
Anzi che finalmente una domanda se la sono fatta.
Si sono guardati attorno e si sono pure illuminati: un incendio pauroso gli stava deforestando la
frescura, un’altra mezza dozzina di minuti di bivacco nella siesta pomeridiana e
finivano deflorati pure loro. Con tutti
i gingilli e gioielli di famiglia.
Tutti e il Colibrì nella sua nota prestanza di due grammi.
Solo che
tutti si catapultavano in direzione acqua, il colibrì volava verso le fiamme.
Un sovversivo.
Un suicidio che
non andava per niente a genio a quel genio del re leone e alla sua scorta: se
quell’uccelletto lanciava la moda dell’harakiri a loro non rimaneva più carne
fresca da (far) predare.
Un ringhio
quel “dove vai!” quando il colibrì gli passò sulla criniera regale.
Una grassa
risata in risposta alla risposta dell’uccellino. E come dargli tolto questa volta al re.
Il colibrì si
era tuffato nel fiume mentre tutti giacevano inerti ed ora stava volando sulle
fiamme. A lasciar cadere la goccia d’acqua raccolta durante l’apatia
generalizzata.
Ottimo,
bravo, da applauso.
Come pensava
di riuscire a spegnere le fiamme quella pulce volante? Da solo oltretutto? E
dai.
Solo però
non lo rimase a lungo.
Incurante di
ironia scetticismo e sarcasmi vari, il piccolo colibrì si rimise al lavoro.
Giù
nell’acqua, su nel cielo, dritto verso l’incendio, giù la goccia d’acqua sulle
fiamme.
Da ovazione
insomma. Non foss’altro per quel suo incedere cocciuto tra le fiamme e il fumo.
Controcorrente come tutti i supereroi che si rispettano. Quelli dei fumetti,
giusto lì se ne trovano ancora.
Solo che i
fumetti nella Savana se li erano passati un po’ tutti i piccoli. Sottobanco.
E uno ad
uno, forti dell’esempio, si associarono all’uccellino. Tronfi e fieri. Incoscienti
insomma, di quell’incoscienza che ti scortica il pelo per l’irritazione perché
lo sai, oh se lo sai, che prima o poi li devi imitare se non vuoi fare la
figura del meschino.
Ma torniamo
ai piccoli che i grandi sono sempre gli ultimi ad arrivare. Alla soluzione.
Un
elefantino si staccò dalle massicce sottane della madre e si precipitò – oddio,
con i suoi tempi – a dare il proprio contributo con il suo superpotere: la proboscidina. La immerse dentro il fiume e aspirò,
aspirò, aspirò. Per risputare subito dopo tutto sul cespuglio più vicino,
spegnendo almeno lì quel fuoco inceneritore.
Senza nulla
voler togliere al beccuccio del colibrì, grazie al cielo arrivò anche il
beccone del giovane pellicano. E poi il
pelo dell’imberbe leoncino che lui inzuppò per benino e poi si scrollò di
dosso. Accanto al fuoco. E il manto del tigrotto, lo zebrotto quasi ci si giocò
le strisce, quelle nere, nell’avvicinarsi quanto più possibile alle fiamme, la
gazzelletta fece quello che poté ma comunque non si tirò indietro. E il rinocerontino,
la piccola antilope, la scimmietta, il leopardino. L’aquilotto ci arrivò dritto
dai monti a dare una mano, in picchiata.
Tutti i
cuccioli al lavoro, era una festa.
C’è solo da
immaginarselo l’orgoglio che lampeggiava negli occhi delle mamme. Altro che
quelle mezze calzette di maschi con i quali si erano accoppiate, grandi grossi
e fannulloni. Pure codardi.
Tolsero ai piccoli tutti i bavagli e bavaglini
che li intralciavano e gli si affiancarono nel pompare e sparare acqua.
Ovunque.
Il re leone
adesso più che sarcastico era indispettito.
E quella
tigre c’era venuta pure dal bengala a biascicargli nell’orecchio tutta la
vergogna della scena.
Apocalittica, un quadro da fine del mondo, qui
si rischiava uno stravolgimento epocale.
E se poi si
riempivano di grilli tutte quelle teste e testoline scellerate e si mettevano a
manifestare per una parità di diritti e doveri nella gestione forestale? Oddio,
e se manifestando e manifestando si fossero esaltati arrivando a pretendere
tutte le sciocchezze bandite dal reame? Equità sociale, pace, tolleranza e
cooperazione in luogo della vigente legge del potere, quello del più forte?
Niente,
c’era da scendere in campo. Subito. E riprendere scena e controllo. E muti
tutti, al lavoro e in fretta.
Al calare
della sera, le stelle tutte accese, l’incendio era completamente spento.
Figurarsi se
il re leone non si affrettava ad indire
immediatamente un gran festone per accentrarsi meriti ed onori con la nota arte
del lisciare il pelo altrui per lucidare il proprio.
Commovente
il suo discorso regale alla folla, il colibrì accanto a lui.
Dunque,
questa la scaletta dell’encomio.
Colibrì
eroe, cuccioli eroi, le femmine sono l’anima del focolaio, insieme si vince,
una goccia d’acqua è preziosa, tante gocce d’acqua fanno miracoli purché
veicolate e non sputate a caso, siamo un grande branco, è restando uniti che
andrà sempre tutto bene.
E la chicca
finale.
L’impegno a
costruire un mondo migliore dove ci sia posto per tutti, niente più violenza, nessuna
guerra. Insomma, tutti fratelli nel rispetto e nella convivenza pacifica.
Quindi, se tanto mi da tanto in una giungla, tutti vegetariani.
Neanche il
bradipo che questo velocista di intuito non è ha creduto ad una sola parola dell’ennesimo
grande proclama del re, figurarsi gli altri. Leone e tigre che si passano
l’aceto per insaporire l’insalatina? Ma per favore.
Poco male,
ai proclami vuoti erano più che abituati.
A loro, ai
piccoli grandi esseri, bastava lo scacco matto dato al re e ai capi tutti. Per
pochi attimi ma a pieno.
Ah, dimenticavo
l’ospite d’onore.
Il colibrì non ci pensò minimamente a
raccogliere onorificenze e accettare promozioni e partecipazioni al consesso
dei gran capi. Lui non ce l’aveva la stoffa del capo, lui era solo un leader.
E per continuare ad esserlo doveva rimanere libero. E volare alto.
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