L'uomo col libro in mano e il cielo sulla testa di Alessandra Tucci

 


Ci sono tornata. Ho resistito due giorni, il terzo sono tornata. Dall’uomo che viaggiava con la mente. Indifferente al sordo tam tam del flusso quotidiano e immobile. Apparentemente.

Volevo sapere cosa leggesse. Volevo in realtà sapere perché leggesse. Sulla strada, sotto il cielo.

E magari offrirgli un qualche libro, ne ho infiniti, così da gratificare il mio sé sedicente benevolo, caritatevole. Quella carità che lui ha stroncato. Con gentilezza e con il sorriso, per questo ancora più spietatamente.

Gliel’ho chiesto, diretta e senza neanche presentarmi, si è sempre diretti quando si esita, diretti per stroncare l’indugio.

Ha alzato gli occhi verso di me, se dicessi cosa c’era in quel suo primo sguardo mentirei. È confuso il ricordo di questo primo contatto visivo. O ero confusa io. 

Sicuramente però non c’era diffidenza. E neanche avversione. Non c’era neanche sorpresa, solo pacatezza nel dirmi che leggeva qualsiasi cosa trovasse nella spazzatura. Sì, perché i libri occupano spazio, chiaro, si buttano per liberare posto. Al vuoto che lasciano.

Era pacato, questo, e anche un po’ evasivo sulla sua lettura. Io un caterpillar. Aveva un libro tra le mani, un altro era posato accanto a lui. Sopra un piccolo mucchio di giornali, le sue coperte.

Volevo sapere. Dove si rifugiasse dentro di sé, tra quali pagine si rinchiudesse. A non vedere. O forse a vedere di più.

“Sì, certo. Ma cosa le piace leggere, cosa leggerebbe se potesse scegliere?” .

Come se potesse. Come se potesse scegliere.

“La scienza. Mi piace leggere di scienza”.

Basita. E bene mi stava. Ero già pronta a rifilargli il thriller che avevo avuto in regalo e che non amo particolarmente. Non amo i thriller, affatto. Era chiaro che neanche lui. Niente ottimizzazione caritatevole dunque, regalare un qualcosa che non si apprezza a chi la apprezza per intendersi. Il sempiterno riciclo dei regali non graditi.

Tutto ciò che parla di scienza affascina anche me, per dar seguito e concretezza al mio guizzo altruistico avrei dovuto quindi accettare io per prima una privazione.

O comprargli un libro per non dargli uno dei miei, ma non sarebbe stata la stessa cosa.

 

Chiaramente non gli ho risposto, ho preso tempo per darne a me nel decidere e sono andata oltre. Sempre più a fondo. Indiscreta, eccessiva forse, invadente. Quello che sono quando voglio arrivare davvero. Alla persona.

“Da dove viene? Perché è in queste condizioni?”.

Quali condizioni poi? La sua eleganza interiore vestita di stracci in un mondo di completi griffati che portano a spasso anime sempre più slabbrate?

Mi ha guardata. Questa volta ha esitato davvero, vistosamente. Anzi che non mi ha risposto a tono, il tono dell’eccess(iv)o. E non si è rinchiuso in sé.

“Vengo dal nord Europa. Mi è stata tolta la dignità, ho perso la voce. E sono qui.”

Cosa gli rispondi a parole così che possa avere un senso? Ho taciuto, grazie al cielo. Ed ho aspettato. Lui ha continuato. Lo sguardo su di me ed oltre, sembrava vagasse, irrequieto e calmo, era dentro l’ossimoro.

“Mi vergogno, sa. Dovrei essere nella mia terra, tra la mia gente, a vivere per migliorarla, dovrei migliorarmi. E invece sono qui, in Italia, sulla strada, ed è colpa mia. Mi sono arreso.”

 

Figurarsi se a questo punto, davanti a tanta costrizione, non mi usciva un “non si tratta di colpa, non c’è niente di cui vergognarsi”  bello, lindo, ciclostilato. E tanto banale da essere banalizzante. Dell’esistere.

In quella sua saggezza che oramai non faceva più niente per nascondersi, l’uomo non mi ha risposto. È andato oltre. Mi ha guardata, ha parlato e mi ha lasciata di sasso. Un’altra volta.

“Sa, dovremmo essere tutti nudi mentre parliamo, questo è l’unico modo per un vero dialogo.”
Ha esitato qualche istante, nei suoi occhi si è accesa una luce divertita nell’incrociare i miei. Infognati nella perplessità. Si è mosso a compassione, lui. Ed ha continuato.

“Vede, se in un qualsiasi dialogo ci presentiamo ognuno con i propri abiti non si ha un dialogo vero. Se vedono me, con questi vestiti addosso, pensano tutti, subito: “Mah, questo è un barbone, quello che dice non vale niente”. Se invece si presenta un generale con la sua bella divisa e tanti stemmi allora sì che vale quello che dice. Questo non è parlare, non è dialogare, non c’è scambio.”
Mi prude il naso ogni volta che comincio a commuovermi, non so perché. Comincia a prudermi il naso e pian piano gli occhi si fanno lucidi. Li ho alzati fissandoli sulla gente che passando ci dribblava, ero accovacciata di fronte a lui, non volevo vedesse quella mia penitente ammissione di colpa. Perché tutti ragioniamo così. Non come lui, no, tutti ragioniamo per modelli. E divise. Tutti ben vestiti. Sempre predicando, ci mancherebbe. Che l’abito non fa il monaco.

“L’altro giorno mi si è avvicinato un uomo e diretto mi ha detto nella sua lingua, la lingua degli zingari «Che stai facendo?» Non si fa così, non è così che ci si rivolge alle persone”.

Non è che questo era un riferimento, neanche tanto implicito, al mio approccio iniziale? Non nella lingua degli zingari, certo, non la conosco, più specifica nel chiedere cosa stesse non facendo ma leggendo, ma comunque più o meno la stessa cosa. Non ho chiesto per non sentirmelo dire. L’ho lasciato finire.

         “Quando ci si rivolge ad una persona si dice innanzitutto «buongiorno», la parola più bella del mondo. Poi si dice io sono tizio, ci si presenta. E poi semmai si chiede cosa sta facendo. E non nella propria lingua, in lingua italiana perché qui siamo in Italia. È così che si fa, è così che si avvia una conversazione”.
Sì, un riferimento c’era, pure chiaro. E bene mi stava. Ancora una volta ho sterzato e cambiato strada. Ne andava del mio orgoglio rimpicciolito. Orgoglio, la dignità è ben altra cosa.

“Come si trova in Italia, ce l’ha qualche aiuto, un qualche supporto?”.

Almeno un motivo di vanto, uno. Se non il personale, quantomeno che fosse orgoglio nazionale. L’Italia brilla nell’assistenzialismo, ce l’ho nel cuore le parole del Manzoni, buone o buoniste non mi è ancora chiaro, ma tant’è: “Il nostro è un popolo buono perché l’italiano, sotto la divisa o l’abito, è e rimane un uomo. E l’uomo fuori da ruoli è umano.”

“Sì, sempre. In Italia ci sono tante strutture di carità. Il martedì e il giovedì portano da mangiare alla stazione termini, gli altri giorni li trovi, si fermano. Sì, ci sono tante strutture di carità e funzionano. Strutture, però, sempre strutture, molto poco le persone.”

Mai la fortuna di imbattermi in un parlare semplice e lineare, ero incappata in un filosofo. Di strada. Le strutture di carità non sono forse fatte di persone? Gliel’ho chiesto, non è che poteva vorticare nell’incomprensibile come gli pareva. E all’infinito.

“Sì, certo, dentro le strutture. Sono tutti dentro la struttura di carità, ti danno da mangiare, le coperte, ti chiedono di cosa hai bisogno, uomini dentro una struttura di carità, dentro un ruolo, è da lì che si muovono. Difficilmente si vede la persona, difficilmente ce la mettono la persona, quello che sono, quello che hanno dentro. Ma è della persona che si ha bisogno, è con la persona che la nostra persona può costruire un dialogo. Non la mostrano, non la si vede mai. Quasi mai.”

 

Gelata. Cementificata, agghiacciata. Un sasso, un cubetto di ghiaccio. Dentro un ruolo ingessato anch’io? Ingessata io? Ho cominciato a chiedermelo frenetica, ma per capirlo avrei dovuto ammetterlo. E di ammissioni con me stessa ne ho già una lunga lista da vagliare ed effettuare, questa per il momento intendevo fermamente risparmiarmela. Ponendo la domanda principale per rianimare per quanto potessi il mio ego sedicente caritatevole ormai moribondo. E chiudere il cerchio.

 “Di cosa ha bisogno? Posso fare qualcosa per lei?”

Quasi temevo la risposta, da quest’uomo era ormai chiaro che poteva arrivare di tutto.

Non mi ha risposto, non nell’immediato. Si è tolto il cappuccio della giacca, si è tolto il cappello, si è battuto la testa con la mano. E mi ha detto, testuale.

“Ho bisogno di sapienza.”

Che gli rispondi a uno così, a parole così?

“Quella ce l’ha già, non posso dargliela io e non serva che gliela dia, ce l’ha già. Insieme alla saggezza.”

E questa volta le parole mi erano uscite dal cuore, davvero da lì, senza filtri buonisti, nude e crude. Come lui vuole si sia quando si dialoga. Mi aveva appena insegnato a dialogare.

“Un libro se vuole, se può. Lo leggo e quando non ho altro lo uso per dormirci sopra, almeno qualcosa tra me e questa strada sulla quale mi ritrovo.”

Uno stillicidio questa conversazione, quest’uomo stillava continui colpi al cuore. E alla coscienza.

Ho spostato gli occhi sul libro posato accanto a lui.  Lui l’ha preso, me l’ha mostrato. “Cardinali e Cortigiane” il titolo, non ho fatto in tempo a leggere il nome dell’autore. Ho accennato un sorriso, lui l’ha raccolto e gli ha risposto.

“L’ho trovato nella spazzatura. Lo leggo perché anche questo loro è un modo di essere uomini. Un altro modo di essere uomini, solo un altro modo.”


 Non solo l’empatia nello scambio, quella nuda e autentica, quest’uomo mi aveva appena mostrato la strada per essere. E far essere. Se stessi, il proprio prossimo. Al di là di ruoli, abiti, tuniche, divise, clichè, oltre stereotipi, torti e ragioni, virtù e perversioni. Liberi di essere. Liberi di far essere. È questo essere umani, è il coraggio di essere. A prescindere.

Nota sull'Autrice

Donna, scrittrice, giurista. Di fatto, una mitragliatrice inesauribile di parole. Ma consapevole del loro potere e sempre più intenzionata ad usarlo per aprire prospettive anziché chiudere orizzonti, liberare essenza e sogni senza languire dentro pozzanghere di cielo, creare sinergie a scalzare egoiche ragioni, ampliare la realtà invece di restringerla. E potenziare l'immenso e troppo poco conosciuto potere dell'essere umano. Presentandolo al mondo.
Al centro dei miei scritti, da Rosa Stellata a La Luce Della Follia fino all’ultimo romanzo, tratto dalla vera storia di Mario Monterosso, Le Sei Corde Dell’Anima (CTL Livorno Editore), sempre l’essere umano e il suo potere di essere chi vuole e costruire la realtà che sente a sé assonante e con l’altro sinergica. Se solo decide di usarlo accettandolo, accettando gli infiniti chiaroscuri dell’Essere. Accettandosi.
Siamo pronti a riempire i nostri cassetti emozionali e neuronali di parole dal sapore buono perché autentico ed ampliante? Pronti ad affilare gli strumenti da lavoro di mente anima e cuore? Lo sappiamo che tendiamo tutti all’espansione e che il fine è l’armonizzazione dei diversi infiniti e non l’appiattimento generale? Che siamo esseri saggi perché incessantemente saggianti, tutti? Partiamo? Insieme?