Valbona Jakova: Tre poesie inedite


Seguo da tempo la poesia di Valbona Jakova, grande traduttrice e ottima poeta  e, confesso, pur non conoscendone la vita privata, la vedo riflettersi come in uno specchio nei versi e, da un libro all’altro, la maturazione stilistica avvenuta. Certamente la sua lunghissima esperienza come traduttrice dall’italiano all’albanese e viceversa ha prodotto nuove musicalità, ritmo e religiosità, abbandonando una certa staticità proprio della lingua madre.

Da qualche tempo decide di abbandonarla, anche se considerata una grande lingua, scrivendo esclusivamente in quella italiana, divenendo così molto più libera di continuare a spaziare su temi più intimi, non solo personali che, per ciò, riguardano un pubblico più vasto e, in poesia, questo è bene.

Lo scrivere, ma anche tradurre se stessi, non è per nulla semplice come non lo è, specie per una donna, scrivere di sé in piena libertà: abbiamo sempre qualcuno che ci spia, spesso il nostro stesso io.

Ciò premesso, in questa nuova raccolta, che ho il piacere di leggere in anteprima, ritrovo temi sociali (anche se già trattati in passato) rinnovati nel linguaggio e nello stile, dove finalmente l’identità del migrante viene superata e prevale quella dello scrittrice. 
Ciò che ci circonda appare con chiarezza: le solitudini soffocate negli occhi assenti di chi non vede, il male dell’esistere combattendo battaglie difficili da vincere, cercando, anche in chi ci guarda, una qualche verità che conforti, spingendoci a pensare che i propri dolori siano più visibili.

La stanchezza delle ore, le attese nella loro inutilità sono temi che accomunano i pensanti mortali, spesso ombre mobili che attraversano la nostra strada senza lasciar tracce né rumori. 
Credo e spero, in questa occasione, di dover augurare alla nuova raccolta, (ne offro un piccolo stralcio) l’augurio di venire presto alla luce.

Finestre

Che aria respiro
se mi sento svenire
in un limbo che nutre
l’anima con ombre
che si muovono nella mia testa
e scendono sui piedi
tronchi senza nervi,
inermi.

Vedo il tuo viso
oltre il vetro della distanza
e non capisco
quale tempo ti abbia incantato.

Ti tratto come inganno
perché intravedo
nella tua mente
l’oscura tana dei tuoi numeri
e calcoli fumanti
che inebriano gli occhi.

Non so poi come sei tramutato
in embrione, ma sento in pancia,
come nel grembo materno,
il lento piacere degli spasmi,
moto ondoso che trapassa aure
per piegare l’orgoglio delle rive.

Di una felicità mai decifrata
erano felici tutti i massi
della mia esistenza,
mentre tremavano in profondità…

La mia mente
divora tutto il mio essere
ma non si denuda.
Vedo sempre l’acqua
ma non la sorgente.

Sento sempre i suoni
sparsi nell’aria e da te
mi separa il vetro
di ogni distanza!

Mi richiama di tornare
il mio spirito
e io lo ascolto!

Prima di rientrare
scorgo ancora le stesse
ombre nere, furiose,
su tutte le squillanti
finestre… chiuse!

***

Ho chiesto

Ho chiesto: buio, sei il mio amore?
Ma il buio mi ha deriso.

Ho chiesto alla luna: sei tu amore?
Un tiepido sorriso è caduto giù.
Ho detto a un sasso, sei bello,
ma il torrente l’ha fatto sparire.

Ho chiesto alla mia terra: amami!
Ma la terra mi ha cacciata via.
Ho detto al ghiaccio: che meraviglia!
Una statua senza cuore mi rese il suo gelo.

Ho detto al sole: sono una viandante,
il sole mi ha scaldato di tanti raggi d’amore.
Ho chiesto all’amore: dove sei?
Mi ha aperto un cuore pieno di dolori.

***

Autunno

Spogliavano il tronco,
come le concubine
davanti a Re Sole, le foglie
della foresta, e lasciavano cadere
per terra i loro veli, che in autunno
si confondevano velocemente
con i rari colori del tramonto.

Al crepuscolo, veli e foglie stese,
diventavano tutte nero tappeto
aspettando il tuo passo audace.

Ti aveva strappato l’ombelico
uno spirito, e tu forse non sapevi
che aveva piantato i tuoi occhi
in ogni foglia caduta, in ogni tronco
della foresta, in ogni crepuscolo,
in ogni velo trasparente e ti chiamava
per vedere nuove apparizioni
spogliarsi nude,
a volte chimere gemelle,
e trapiantarle
in sagome di una tua memoria
che rimaneva nell’oggi, sempre,
come un’infanzia che non svanisce mai.

Così tu non sapevi passeggiare
nei giardini dello spirito,
non sapevi attraversare
i sentieri dell’anima,
non sapevi contare i passi
dell’attesa,
tu non sapevi respirare
l’unico fiato della montagna,
consacrata al vento,
non sapevi baciare il suo collo
scoperto al sole,
non volevi accarezzare la chioma
dei suoi pini.

Ti spaventava la secolare incendiaria
veemenza.

Ti specchiavi solo
nel riflesso seducente
delle casuali parole voragini,
buie…
belle come la notte!



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