Incontro con una piccola lucciola di Simone Principe


ovvero: Supremazia materna

Isernia centro storico

 ovvero: Supremazia materna


Era sera, una delle prime di primavera, il sole calava comodamente, si godeva ancora un po’ il cielo rischiarato.

Mi godevo anchio una passeggiata nella mia cittadina che, come una signora, seppur avanti con letà, conserva, anzi accresce il suo fascino, dal portamento che ha una storia da rivelare.

Bisogna avere riguardi, uno sguardo inatteso che susciti stupore, senza dare nulla per scontato, ascoltarne i bisogni e saperla corteggiare come fosse il primo giorno.

Fare ciò con una città, vuol dire girare e rigirare, toccare, respirare ciò che ha da offrire, alzare lo sguardo e soffermarsi su vedute ignote.

Nella riscoperta della città, in particolare del centro storico, mi ero imbattuto in un vicolo cieco: un lato aveva quattro finestre di due distinte abitazioni, una delle quali con un balconcino, mentre sullaltro lato un portone antico, probabilmente risalente agli inizi del novecento, con sopra due finestre.

 Alla fine del vicolo una parete sporgente ad arco dal colore di corallo vivo e una piatta nella rientranza, della stessa tinta, sulla quale è raffigurata una madonna con in braccio un bambino, come fosse una donna qualsiasi” e credo che in questo ci sia la vera sacralità”, nel rendere popolare, umano un legame tanto sacro.

Sotto la madonna una panchina danneggiata, su cui decisi di sedermi per dare unocchiata al cellulare, mentre riposavo un po’ le gambe.



Poco dopo dal balconcino si intravide una luce e delle ombre che si muovevano velocemente, spensi il cellulare e decisi di andarmene, quando le urla catturarono la mia attenzione.

Una voce da donna, adulta, particolarmente nervosa, nonostante urlasse, ciò che diceva, si capiva ugualmente:

«Maria, sei mia figlia, appartieni a me, sei sotto a me, devi fare quello che dico io!».

«Sono tua figlia, questo è certo, ma non sono una tua proprietà, non hai nessun diritto di trattarmi come fossi un generale e vorrei capire cosa ti ho fatto di male per essere trattata così, come fossi unestranea, una schiava, una poco di buono!» Urlava anche la ragazza, ma con voce tremante per il dispiacere.

«Una che non fa mai niente in casa, non studia, esce tutte le sere facendo tardi, andando chissà dove, non è una buona figlia, è una puttana! puttana!». La voce della madre, non tremava affatto, era ferma, glaciale, traboccante di rancore.

Turbato dalla naturalezza con cui una madre possa rivolgere certe parole a una figlia e dal pianto della ragazza, mi sedetti nuovamente, per comprendere come si possa arrivare a tanto o peggio.

«Mamma ma sei pazza, mi insulti in questo modo, negando levidenza dei fatti! Ogni giorno prendo il pullman per andare alluniversità, studio anche lì nei momenti di buco, torno il pomeriggio o, come spesso capita la sera tardi, in casa lavo i piatti, pulisco, lavo stendo e stiro i panni, alle cose mie ci penso unicamente io, esco la sera con il mio ragazzo, con i miei amici, non faccio nulla di più o di diverso da qualsiasi altra ragazza!».

«Se rimani con lui, continui a uscire così spesso, anche con le tue amiche e non ti dai una regolata, da questa casa te ne vai!».

«Non riesco a capacitarmi di come ti poni nei miei confronti, eppure sai che non faccio nulla di male, ma tu vuoi solamente che io faccia quello che ordini tu». La voce della ragazza si abbassò, quasi arrendevole allintimidazione della madre, lasciando uscire flebili parole.

«Meglio se non nascevi!» Disse la madre, non urlando più, ma sempre impassibile!

La ragazza, Maria, a quel punto uscì con le lacrime agli occhi fuori al balconcino, appoggiandosi alla ringhiera arrugginita, che le lacrime corrodevano ancora di più.

Non si accorse che ero lì, ad osservarla. Il rossastro del tramonto fece spazio al chiarore della notte e la ragazza, così poco rischiarata, apparve indifesa, oltraggiata dalla supremazia materna, cieca e sorda dinanzi alla figlia, il suo stesso sangue, la sua stessa carne che le cercava di spiegare, che con lei voleva ragionare, ma neppure il pianto di una figlia fa crollare il muro del rancore.

Nella poca luce che cera, lei poteva illuminarsi da sola, come una lucciola che di giorno si alimenta dellenergia solare e di notte si rende visibile al mondo, illuminando il proprio cammino.

Poco dopo la ragazza rientrò, asciugandosi le lacrime e tirandosi indietro i lunghi capelli mossi, mandandomi il loro profumo di gelsomino notturno, che riesco ancora a sentire.

Mi voltai verso la parete e il mio sguardo si fermò su quello della madonna e pensai che lei si sarebbe messa in croce al posto del figlio, mentre parlando dei giorni doggi, una madre (un padre) solamente per sentirsi tale, come fosse una carica o unonorificenza, fabbricherebbe la croce su cui inchiodare il proprio figlio.

Simone Principe