Francesco Giampietri, Lettere e disarmonia di Agnese Aloisio

 Introduzione

Tengo molto a fare una breve introduzione per quanto riguarda Francesco Giampietri, autore del libro che mi è stato affidato nella lettura. La scelta, da me effettuata, degli scritti che a breve avrò il grande piacere di leggere, è sorta da una forte condivisione che ho percepito fra le parole di Giampietri e le mie parole interiori: nei suoi scritti ho ritrovato un riflesso della sottoscritta; si tratta di una condivisione molto particolare perché osserva situazioni di ordinaria comunione sociale visti, però, da un altro diverso punto di vista. Un esempio è dato dal modus vivendi del Natale, scritto dal quale partirò nella lettura; coglie altro, o meglio anche altro al di là del comune festeggiare e si tratta di dettagli in verità ben visibili e toccanti ma che si tende generalmente, dal mio punto di vista, a scegliere di non guardare; toccante questo osare dell’autore, sull’invisibilità che non è finalizzato, però, a criticare gli altrui stati d’animo e punti di vista, ma poggiare lo sguardo partendo da un altro punto di vista.

Concludo questa breve introduzione con una frase che è nata dentro di me al termine della lettura di tutti i suoi scritti:

Francesco Giampietri, tramite questa sua rara sensibilità, sceglie di dare al sottotitolo il ruolo di titolo.

Scritti di Francesco Giampietri scelti da Agnese in occasione della Giornata Mondiale della Poesia organizzata da Beppe Costa il 19, 20, 21 marzo 2021:

Lettere e disarmonia di Francesco Giampietri: Cap. Camere di vita quotidiana; paragrafo 7 Cap. Diario minimale; paragrafo 18 e 19



Agnese Aloisio

        7.

Basta una piccola distrazione per finire, smarriti e confusi, in ospedale. Basta trascurare una buca che perfora il manto stradale. Le deficienze amministrative spezzano le ossa. Un volo acrobatico dalla vecchia bicicletta sovietica mi fa arrendere al suolo, trafitto come san Sebastiano da fitte di morte. Immagini opache voci di apprensione e poi il soccorso nel quartiere proletario. Dal sudore nero della strada che si apre alla campagna al neon del reparto di ortopedia. Mi ricoverano alle nove. Nella penombra rassicurante qualcuno commi sera la sua solitudine e una vecchia invoca la madre morta nel dopoguerra. Gli altri dormono, o almeno credo. Vincere la diffidenza del compagno di camera richiede appena qualche battuta. La reclusione affratella. Lui cede al sonno e io evado dal reparto. L’unico bagliore nel corridoio proviene dalla corona fosforescente di una Madonna pietosa. Coltivo per un attimo la tentazione di staccare quella presa illusoria ma preferisco lasciar perdere. Ho la mano sinistra in fiamme e il cuore accasciato sul crinale del disimpegno. Il mio passo clandestino sfugge a un’infermiera. Vorrei mendicare una sigaretta. Rientro in corsia rassegnato a vegliare, seccato dal sonno profondo del mondo. Vado in cerca di cronache di vita disperata, per non soffocare di noia e di amuchina, e di notte rientro sempre più tardi.

Il vecchio ingegnere ha il femore fratturato. Mi appare come una maestosa pianta ornamentale. Qualcuno gli ha rubato la vita a Torino, vent’anni fa o giù di lì. Era ricoverato alle Molinette a causa di una banale appendicite, ma l’anestesia gli ha consumato il corpo disperdendo i suoi appunti nucleari.

 Mima il bacio della sigaretta per farmi intendere quel che vorrebbe. Attraverso tutto l’ospedale pur di rimediargliene una.

Il corpo dell’addestratore di cavalli è una cucitura di morsi terrificanti.

«Sai, non sono mai caduto da cavallo. Ho domato bestie che non avevano mai visto un cristiano. Sono qui perché sono scivolato in bagno. Secondo te esiste la sfortuna?». 

Raccolgo altre storie, ma non mi va di solcare ferite non ancora cicatrizzate. Pochi giorni dopo le dimissioni torno in ospedale per una visita di controllo e raggiungo il reparto. Non trovo nessuno. Quei racconti sono dissipati nelle iniezioni della sera. La comunità ospedaliera è interinale. Fuori è vita e pericolo.

18

Notte di Natale. Il disincanto si respira a pieni polmoni nelle piazze. Persino le luminarie sono pallide, nient’altro che lumi opachi. Tutto sembra avere stanchezza d’esistere e malcelato dolore. Non v’è da fidarsi. La gatta sonnecchia ignara sul divano, indifferente verso gli epicicli del mondo. E io curo i dettagli del presepe, rispolverando la passione infantile per le costruzioni e i castelli di sabbia. 

La festa non si risolve nelle file chiassose dei centri commerciali, negli aromi invadenti delle cucine e nell’incenso amaro delle cattedrali. Né è mistificata dal sorriso benpensante che magari fa scivolare un centesimo di compassione nelle mani sporche del mendicante. Perché vale l’adagio popolare secondo il quale a Natale sono tutti più buoni. Il sentimento della festa non si manifesta nei calici incrociati e nei baci scambiati con chi ti sogneresti di baciare durante l’anno, o nelle melodie di sempre, così rassicuranti. I ricordi d’infanzia impigriscono il cuore. Ed è così che recitiamo una parte che conosciamo da sempre a memoria. Ma la pietà cristiana non sempre si accorda con la consuetudine clericale ed è di certo contraddetta dal supermarket della fede. Ed è così che il mio pensiero va a quanti sono distanti dalle luci intermittenti e dai cori angelici. Raggiunge i reparti di oncologia e di terapie palliative negli ospedali, non trascurando le camerate desolanti degli ospizi e delle cliniche psichiatriche. Fa visita ai centri sociali, alle comunità di recupero e ai centri d’accoglienza. E poi si spinge fino ai giacigli di fortuna nelle stazioni ferroviarie, magari all’interno di vecchi treni disarmati o in auto abbandonate. Attraversa i corridoi sempre illuminati degli istituti penitenziari, non temendo i covi di puttane tossici e ladri che, come suggeriva Nelson Algren, sono gli ultimi rimasti con qualcosa da dire e nessuno a cui dirlo. Il Natale è infatti la maledizione degli emarginati. Accentua la sofferenza delle anime oscure: chi ulula in una casa dei matti avvolta dalla nebbia, chi si rifugia sotto i cavalcavia della tangenziale, chi vortica in casa implorando alle lancette di affrettarsi, chi piange senza ragione né conforto. Per la società dei consumi non esistono perché sono il sintomo di una disfunzione sociale. Non esistono o meglio non devono esistere. La società dei consumi luccica nei ristoranti esclusivi e nei santuari consacrati a Nostra Signora dell’Ipocrisia. Nausea, nausea, lasciateci respirare!

Che disgusto le regioni del sottosuolo!

Sono ombre notturne, simulacri di foschia onirica, l’incubo di diventare qualcosa del genere. Notte di gelo e di stelle. Cristo festeggerebbe con loro il suo compleanno.

19

Notte di Capodanno. Un tempo si scaraventavano dalle finestre i piatti e i bicchieri che occupavano il fondo della cristalliera. Era un modo per liberarsi della polvere e delle sue sedimentazioni. Più in generale ogni cominciamento richiede una frattura tangibile con quel che lo precede: non si dà il nuovo senza il sacrificio del vecchio. Cosa sono del resto i botti se non finzioni di distruzioni, frantumazioni dell’abitudine che annacqua le motivazioni ed affoga le aspettative?

Non si può far altro che ridurre in mille schegge i fardelli che appesantiscono il cuore e tranciare con un colpo secco i rami che impediscono di abbracciare il cielo.

 Non venite a parlarmi dei buoni propositi per l’anno che verrà. La vita, quella vera, è sperimentazione degli incontri, improvvisazione, uso delle occasioni. Tentativo e niente più.

Qualche informazione QUI su Francesco, giovane prof. filosofo di Venafro, scomparso a 37 anni 

con Dacia Maraini