Quando le periferie erano di sinistra di Giovanna Falli

San Basilio foto di Tano D'Amico

Vite in vendita


Proponiamo un capitolo dell'autobiografia di Giovanna Falli intitolata “Vite in vendita”, una storia che spazia dal 1940 fino ai giorni nostri, scritta in un linguaggio semplice e diretto. Si tratta della vicenda umana di una donna che ha vissuto ogni sorta di deprivazione: dagli orrori della guerra alla precoce mancanza della figura paterna; dallo stupro alla reclusione in collegi e in manicomio; da un matrimonio pianificato quando era ancora una bambina alla discriminazione riservatale a San Basilio, il quartiere dormitorio dov’era costretta a vivere; dalla vedovanza al duro lavoro in fabbrica, fino a un tentativo di suicidio.

Una donna ostinata che non si è arresa a una sorte che sembrava relegarla inesorabilmente ai margini, a tramutarla in vittima predestinata, a colpirla ripetutamente nei diritti e negli affetti. Una donna che ha dovuto lottare sia per sé stessa che per garantire una vita migliore ai suoi sette figli. Una donna che, malgrado tutto, ha saputo tradurre in positivo le sue difficili e dolorose vicende.

È andata avanti ed ora, con questi suoi scritti biografici, vuole essere la testimonianza che chiunque, anche chi pensa all’ineluttabilità di un destino ostile, può sempre trovare un modo per migliorare e rendere ricca la propria esistenza. Una donna che è stata ferita e abusata dagli altri, eppure, una donna che ha continuato e continua a credere negli altri. Lei, da madre-bambina quando aveva appena 15 anni, a donna caparbia che ha lottato per le conquiste civili di una società che sarebbe stato più facile odiare. Una donna che è una piccola storia, ma che ha contribuito a una storia più grande. Una donna che stimo ed a cui sono intimamente, profondamente legato: mia madre.

Marco Cinque



Madre mia (a Giovanna)

Dalla vita
per sette volte lacerata
uguale per sette diverse vite
e ancora per sette affetti separata
sbagliando sette volte
e ogni volta hai fatto bene

Per sette amori hai pagato
e hai preso tanto
per ciò che non hai mai avuto
ma non hai rimpianto

Per tutto quel che m’hai lasciato:
le cataratte, le allergie, la timidezza
l’inclinazione per l’ultimo banco
il tifo per i deboli e i perdenti
tutti i sorrisi incontinenti
l’ingenuità che sopravvive
persino alle sconfitte più cocenti

E adesso ti guardo, mi vedo
scoprendo cose che non si possono capire
ti ascolto e mi ascolto
nella tua voce mi appiglio
sentendo le carezze del silenzio
come coperta soffice
avvolgermi pensieri senza tempo

Eppure ancora e ancora
io ti porto dentro
come l’unica certezza
per sette volte in una volta sola
che tutto questo sarà per sempre

E come le parole
quando iniziano a cadere
a diventare troppe per qualsiasi poesia
soltanto due me ne farò bastare
così, come non ti chiamo mai: madre mia

Marco Cinque – Roma, 1987
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Giovanna a San Basilio a 13 anni
Era il ‘68 quando partorivo Fulvio, il mio settimo figlio. Mi sentivo felice per la nascita e al contempo preoccupata, perché una famiglia così numerosa e con pochi soldi poteva sopravvivere pensando esclusivamente a come svoltare il presente. Il futuro potevano permetterselo solo i benestanti. Tuttavia mi ostinavo a immaginare che qualcosa potesse cambiare e non mi arrendevo all’idea di una società che punisce i più deboli.

Sono cresciuta ai margini, nella violenza, nella discriminazione, in collegi e ghetti che negavano qualsiasi ipotesi di crescita individuale o di riscatto sociale. Praticamente costretta a prendere marito quando ero ancora una ragazzina: a 14 anni il matrimonio e a 15 la prima gravidanza. Per le donne “cazzi, cazzotti e pancia piena” (naturalmente di figli), era il monito rivolto a chi, come me, si azzardava ad alzare la testa.

Orribile sentirsi considerare un contenitore senza contenuti.La voglia di impegnarmi per riuscire a cambiare qualcosa, spesso naufragava nei più strambi tentativi. Come quella volta che andai nella sezione del PCI locale e la mia disponibilità venne fraintesa: “Ah, sei una compagna? Allora sei per l’amore libero”. Tirai uno schiaffone a quell’imbecille e girai i tacchi. Però non immaginavo che di lì a breve sarebbe stata la politica a venirmi a cercare.

All’epoca c’erano frotte di studenti (in borgata li chiamavano “capelloni”), che volantinavano di casa in casa con l’intento di organizzare riunioni di quartiere. Stavo stirando la solita montagna di panni, i bambini giocavano sotto il tavolo e la figliola più grande si esercitava su una vecchia e malridotta Olivetti, quando bussarono alla porta.

Mi consegnarono un volantino dove c’erano elencati problemi con cui dovevo fare i conti tutti i santi giorni. “Che gli salta in testa a questi figli di papà” - pensai - “di venire a farci la lezioncina. Ma cosa ne sanno loro dei nostri problemi?”. Per spiegare meglio le ragioni viste dalla prospettiva di chi i disagi li vive quotidianamente sulla propria pelle, scrissi un bel “controvolantino”, che prese a girare tra i gruppi della sinistra extraparlamentare. Sembrava che la mia combattività interessasse a molti.

Così ebbi occasione di incontrare svariate “sirene”, come ad esempio Paolo “Straccio” Liguori di Lotta Continua o Mimmo e Lanfranco Pace di Potere Operaio; ma, per una serie di motivi che non sto ad elencare, non mi ispirarono granché fiducia. Poi c’erano i maoisti, coi loro libretti rossi oppure i “Tiburtaros”, che scorrazzavano sulle moto con l’immancabile eskimo e ancora un’infinità di altri gruppi che fatico a ricordare. Alla fine decisi di impegnarmi assieme a quelli del collettivo del Manifesto, poiché “strombazzavano” meno e mi sembravano più seri.

Iniziai ad andare casa per casa, borgata per borgata, ad ascoltare altre donne, gli operai delle fabbriche di via Tiburtina e ogni giorno imparavo e capivo che quello “dal basso” era il modo più giusto e concreto di fare politica. Gli slogan “il personale è politico” e “le contraddizioni sono uno stimolo”, divennero parte del mio essere. Anzi, lo sono ancora. Ebbi anche modo di “acculturarmi”, partecipando a un’infinità di riunioni: con le femministe, con Magistratura Democratica ed altri, ma confesso che il più delle volte mi sentivo un pesce fuor d’acqua.

Quella volta che a San Basilio occupammo un edificio per farne un pronto soccorso medico, fu la prima iniziativa davvero seria che mi ricordi nel quartiere. Rimasi parecchio meravigliata dalla partecipazione e dalla disponibilità di tutti: studenti, operai, famiglie, ciascuno dedicava con passione il proprio tempo e le proprie competenze. Fu solo il primo passo, a cui seguirono le autoriduzioni degli affitti e le lotte per la casa. Sembrava proprio che la borgata si stesse finalmente svegliando da un lungo letargo, ed ora anch’io iniziavo a vedere per i miei figli la possibilità di uno straccio di futuro.

Giovanna matrimonio a 14 anni

Ora le periferie si andavano sempre più politicizzando e le proteste dove si rivendicavano sacrosanti diritti trovavano crescente partecipazione. Non sempre però le cose filavano lisce, come quella volta alla Magliana, durante un’occupazione per la casa, dove c’erano pure famiglie con figli piccoli. Finì con una violenta carica dei celerini per sgomberarci. Nel caos, vicina a me, una bambina piangeva impaurita ed io, invece di svignarmela, la avvolsi col mio corpo per proteggerla. Questo mi costò un’interminabile scarica di manganellate. Poi, tirarono via la bimba e, quando alzai la testa, mi sferrarono un colpo in faccia che mi spaccò due denti. Non contenti, mi presero a calci fino al cellulare, caricandomi su con la loro grazia e arrestandomi assieme ad altri. Mi sono sempre chiesta se queste persone, che si guadagnano così la pagnotta, prenderebbero a bastonate anche le loro madri e i loro figli qualora questi rivendicassero dei sacrosanti diritti.
Al processo, dove avrei rischiato dai 5 ai 10 anni, non arrivai mai. Dei 60 fermati quella notte fui l’unica (in disaccordo col parere dello stesso avvocato che mi difendeva, mandato dallo studio di Rocco Ventre) che ammise di aver partecipato pacificamente all’occupazione in sostegno di gente bisognosa e di essere stata aggredita e picchiata senza motivo dalla polizia. Il giudice mi diede ragione e venni assolta in istruttoria.

Devo ammettere che era difficile rendere compatibile l’enorme e necessario impegno da dedicare a una famiglia tanto numerosa, con l’attività politica e il lavoro che ora svolgevo come centralinista al Manifesto, ma sentivo che ne valeva la pena.

Nel ’72 poi ci fu una svolta importante: il Manifesto si presentava alle elezioni politiche, e ricordo riunioni su riunioni per decidere se parteciparvi o meno. Al Vicolo dei Canestrai si faceva notte a discutere chi candidare, ma quando venni inserita nella lista non la presi bene. Non mi sentivo all’altezza di una tale responsabilità e mi chiedevo: “Come posso rappresentare qualcuno, io che ho solo la terza elementare?”.
manifestazione lotta per la casa

Feci comunque tutta la campagna elettorale assieme a Roberto Tesi e a Tommaso Di Francesco. Sia a destra che a sinistra, però, promisero di darmele di santa ragione: a destra perché ero di sinistra e a sinistra perché dicevano che toglievamo voti. In cuor mio però ho sempre pensato che la diversità dovrebbe essere sempre un’occasione di confronto, non un motivo di conflitto, ma tant’é. Quell’esperienza comunque mi insegnò un sacco di cose. Purtroppo le elezioni andarono male e non si raggiunse il quorum, ma ricevetti parecchie preferenze, e infatti ricordo che ero subito dietro il capolista Pietro Valpreda e Luciana Castellina.

Dopo questa delusione, ci fu anche un precipitare di eventi in famiglia e dovetti andar via di casa, portandomi dietro tutti e sette i figli. Sorvolerò sulle ragioni che mi costrinsero a questa scelta, perché rievocarle sarebbe troppo doloroso per i miei figli. Sta di fatto che una sera dell’11 dicembre, nel 1972, mi presentai in questura con tutti i miei bambini, per spiegare le ragioni del nostro allontanamento. All’epoca poi si rischiava addirittura l’arresto per abbandono del tetto coniugale. Fu disgustoso essere sottoposta a tutte quelle domande morbose, a quelle allusioni indegne di persone che invece dovrebbero garantirti sicurezza e proteggerti.

Quella notte e nei giorni successivi li passammo come sbandati, ospiti di svariati compagni e compagne e delle loro famiglie. Infine, ci salvò la generosità di Alfredo Fasola, che decise di lasciarci libero il suo appartamento in affitto di Via Donizetti, ai Parioli. Certo, da borgatara a parolina, chi l’avrebbe mai detto? Lì ci restammo fino all’agosto del 1974, ma ora dovevo svolgere due lavori per trovare i soldi, sia per l’affitto che per la sussistenza della famiglia. Di giorno facevo la centralinista al Manifesto e la sera lavoravo fino a tardi nella cosiddetta “trattoria degli studenti”, in via dei Fienili. Bene, una casa e due lavori mi permettevano di evitare un intervento dell’assistenza sociale. Però ricordo con tanta riconoscenza il sostegno e l’affetto di persone senza cui sarebbe stato davvero difficile tirare avanti: Carlo e sua moglie, Gianfranco, Concetto, Elena, Alfredo, Filippo, Elisabetta e tanti altri. Quello era un periodo in cui la parola “solidarietà” aveva ancora un senso e veniva messa davvero in pratica. Credo che quando le parole non restano separate dai fatti, le relazioni tra gli esseri umani si realizzano al meglio.

le marrane dietro i lotti delle case popolari a San Basilio


Nel ’74, dopo un serio intervento chirurgico che mi impedì di diventare ancora mamma, trovammo una nuova casa. Questa era un seminterrato adibito a scuola materna. Ora, dato che i permessi per l’agibilità di questa scuola non arrivarono, i proprietari l’affittarono come appartamento. C’era un bel giardinetto, uno stanzone ampio, una grande stanza, la cucina spaziosa e un buffo bagno provvisto di 6 piccoli lavandini e 6 minuscoli water. Quando ci veniva a trovare qualcuno, la vista di quell’insolita toilette causava sempre risate a crepapelle e battute ilari.

In quel periodo, come si suol dire, mi rifeci una nuova vita. M’innamorai persino e quel rapporto sembrava finalmente una cosa seria. Invece durò fino al 1989, poi naufragò tutto e seguirono vicende antipatiche legate all’acquisto della casa dove oggi vivo. Insomma, sta di fatto che, ancora una volta, un uomo che aveva promesso mari e monti poi si è guardato bene dal mantenere la parola. In buona sostanza, quel che lui prima considerava il suo progetto di vita, la sua famiglia, i suoi figli, ora non erano altro che un mezzo per realizzare i propri interessi.

Tornando all’epoca in cui fui costretta a lasciare la borgata, ho riflettuto sul fatto che forse non ero stata io sola ad andarmene. Ormai a San Basilio e nelle fabbriche sulla Tiburtina si vedevano sempre meno persone impegnate e desiderose di migliorare, se non l’intera umanità, almeno una piccola borgata.

Ecco, oggi sembra tutto più confuso e pare che ciascuno vada per proprio conto. È sempre più difficile pensare ad una unità d’intenti per fare qualsiasi cosa. Insomma, credo che le periferie siano state le prime “vittime” della crisi politica della sinistra, abbandonate di nuovo alla miseria del loro destino ed ora risvegliate dalla presenza di “sirene” ben più inquietanti e pericolose di quelle di allora.

Sono comunque felice, politicamente parlando, di essere cresciuta riuscendo a rimanere la stessa. Cosa che non posso dire di molti compagni e compagne, talmente cambiati che la loro “crescita” sembra direttamente proporzionata al prestigio delle poltrone occupate o al loro conto in banca. Mi viene così da ridere se penso a dove sono e cosa fanno oggi molti di quelli che volevano fare la rivoluzione per rendere più giusto questo mondo. Chissà, forse avranno pensato a un mondo esclusivamente per loro?

Giovanna Falli

(capitolo tratto dall'autobiografia Vite in vendita)